Io con la matematica non mi ci imparento – come si dice dalle mie parti -, quindi non chiedetemi il perché del nome di questa rubrica, che poi tanto rubrica nemmeno lo è, se non il pretesto e l’occasione per liberarmi delle recensioni in arretrato di quei libri che ho letto, non apprezzato in maniera così impellente da aver voglia di parlarvene e di cui non mi va – per mancanza di tempo, soprattutto, ma anche di voglia – di spender troppe parole. E quindi, mentre me ne vado in gita (eh, sì, capita anche alle magistrali!) con gli amici, ve ne lascio tre al volo augurandovi una bellissima giornata: tenete duro, è arrivato il weekend, non fatevi demolire dal maltempo <3"><3"><3"><3
Titolo originale: Taking chances
Serie: Taking chances #1
Autrice: Molly McAdams
Traduttori: Anna Leoncino e Sandro Ristori
Editore: Newton Compton
Anno: 2015
Pagine: 504
Harper ha diciotto anni ed è cresciuta in una base militare, sotto la rigida supervisione di suo padre, un marine severo e poco comunicativo. Ma finalmente è riuscita a spuntarla: farà l’università a San Diego, all’altro capo del Paese, e potrà così cominciare a vivere la vita a modo suo, sperimentando cose di cui ha sempre e solo sentito parlare. Grazie alla sua nuova compagna di stanza, Harper viene introdotta in un mondo di feste, bei ragazzi, nuove emozioni. Si ritrova però ben presto con il cuore diviso a metà: è innamorata di Brandon, il suo fidanzato, praticamente il ragazzo perfetto, e contemporaneamente prova una fortissima attrazione per Chase, il fratello della sua compagna di stanza, che invece non sembra affatto “perfetto”. Nonostante provengano entrambi da storie difficili, tutti e due adorano Harper e farebbero pazzie per lei, compreso un passo indietro se questo potesse aiutarla a essere felice…
Il disagio è quella cosa per la quale inizi a leggere un libro, hai un vago senso di déjà-vu, continui a leggerlo e ti rendi conto di anticipare eventi che poi accadono realmente per poi scoprire che quel romanzo lo avevi letto in inglese, lo hai voluto seppellire nell’inconscio per dimenticare e ti rimbalza davanti improvvisamente. Non è stato bello, rendersene conto, sapete? Perché un conto è leggere un libro che non piace una volta, ripetere è puro masochismo e ancora non mi capacito di come la mia mente lo abbia totalmente rimosso fino al momento in cui l’ho ripreso. Ma, d’altronde, se lo avevo cancellato un motivo c’è e si spiega facilmente: l’irritazione. Non solo per una protagonista Mary Sue che non fa nient’altro in cinquecento pagine che passare il tempo pensando ai ragazzi e saltellare da uno all’altro al cambio di capoverso, ma anche per il modo col quale viene tirato via tutta la storia, affrontando in maniera sbrigativa situazioni che dovrebbero creare un minimo di tensione volto a mostrare il personaggio sotto una diversa ottica o influenzarlo e finendo per essere un accumulo di eventi senza capo né coda, una sequenza di fatti non legati tra loro che non sembrano aver un senso già di per sé. È stata una sofferenza e il mio non voler lasciare a metà mai niente non ha aiutato, costringendomi a sorbirmi i deliri di Harper tra Chase e Brandon – due cavernicoli che menano le mani l’uno contro l’altro non appena uno dei due è il favorito del momento della nuova ragazza innocente arrivata in città – alle sette del mattino. Non sconsiglio mai le lettura, ma questa, se ne siete in qualche perverso motivo attratti – affrontatela con leggerezza e il cervello spento.
Voto: <3"><3"><3"><3
Titolo: Ho imparato ad amareTitolo originale: Upside down
Serie: Love map #1
Autrice: Lia Riley
Traduttrice: Stefania Rega
Editore: Newton Compton
Anno: 2015
Pagine: 320
Natalia Stolfi ha ventuno anni e sta cercando di gettarsi il passato alle spalle. La sua vita è a una svolta: sta per lasciare la California per andare a studiare sei mesi a Melbourne. Lì in Australia nessuno sospetta che in realtà quella studentessa dall’aria fresca e spensierata stia sprofondando sotto il peso di ricordi dolorosi. Tutto sta procedendo secondo i piani, fino a quando Talia non incontra un surfista dagli occhi verdi e ipnotici che sembra incredibilmente in grado di capirla, di andare oltre le apparenze. Bran Lockhart è reduce da una brutta delusione d’amore, eppure niente può renderlo cieco di fronte a quella ragazza californiana che lo costringe ad abbassare ogni difesa. Non ha mai voluto nessun’altra come vuole Talia, ma dovrà cercare di capire se quella che c’è tra loro è davvero la scintilla che brilla una sola volta nella vita… e che nulla può spegnere.
Questo è uno di quei libri che mi fa arrabbiare perché ha delle premesse che, pur non spiccando per originalità (come l’espediente di far incontrare due ragazzi dal passato turbolento e/o doloroso), se trattati in modo innovativo, possono dar ottimi risultati creando una narrazione capace di tenere non dico incollata alle pagine, ma quantomeno interessata alle vicende di Talia e Bran fino ala fine. E invece, per quanto sia stata una lettura di quelle utili per svuotare la mente, perfetta per quell’orario fastidioso delle otto di sera quando prendo il treno dopo una giornata cominciata alle sei, tutto è così veloce che un po’ fa girar la testa. Illogico, irrealistico pensare che già al secondo capitolo si parli di amore per due che si sono appena conosciuti, e senz’altro un po’ disturbante trovar pregiudizi e cliché spiattellati un po’ alla qualunque qua e là. E se mi arrabbio è proprio perché in alcuni capitoli si intuisce che, scavando un po’ più a fondo, donando un approfondimento psicologico degno di questo nome a due con un backgroud tragico che espressamente lo richiede, poteva venir fuori qualcosa di diverso. E dispiace perché invece mi ritrovo a constatare che si scade nel gretto, talvolta, con un linguaggio che proprio non riesco a sentir vicino a me né plausibile in certe scene (mi ha ricordato la Glines, per dire) e si lascia la strada a una storia banale, che porta avanti un colpo di fulmine fatale che altro non è se non un romanzetto da leggere sotto al sole, senza prestarci troppa attenzione.
Voto: <3"><3"><3"><3 <3"><3"><3"><3
Titolo: The fourth lionAutori: Jeff Ayers e Kevin Lauderdale
Editore: Booktrope Publishing; inedito in Italia
Anno: 2014
Pagine: 140
Potete trovarlo qui e qui
Jake Strand e sua sorella Kayla sono studenti di una scuola elitaria di Washington. Quando il migliore amico di Jake, Amar, figlio di un ambasciatore indiano, scompare, si incaricano di cercarlo. L’ambasciatore non è preoccupato, è più interessato a un portatile all’avanguardia che Amar aveva prestato a Jake – un portatile che presto Jake vede rubato. Aiutati dalla migliore amica di Kayla, Hannah, i tre combinano tecniche di investigazione datate a quelle col computer e tramite i social media per seguire gli spostamenti di Amar. Da hotel squallidi all’ambasciata indiana passando per il Lincoln Memorial, la loro ricerca li porterà in giro per tutta la capitale.
Devo ammetterlo: questa trama, nel momento in cui una editrice americana mi ha proposto il libro (non chiedetemene il motivo, ancora me lo domando!), non aveva catturato la mia attenzione. Senza alcuna ragione, se non quella di dover frequentare le lezioni e voler leggere qualcos’altro, ho lasciato The fourth lion ad attendere per un bel po'; ma quando l’ho iniziato, l’ho terminato nel giro di qualche ora. E mai me lo sarei aspettato, perché non è decisamente uno dei generi che sono solita leggere. Forse è stata Washington a fare da sfondo, con la sua storia e i suoi monumenti, o forse quelle piccole battute da saputelli che mi hanno costretta a pendere dalle labbra di quattro adolescenti – che capiscono di tecnologia più di me -, ma il fatto è che questo romanzo è una lettura profondamente piacevole. Così come lo è seguire Jake, Hanna e Kayla attraverso i corridoi di un polveroso hotel e tra le stanze lussuose dell’ambasciata, alla ricerca di Amar di cui si son perse le tracce e che i tre sono determinati a trovare a tutti i costi. Tra una citazione di Sherlock Holmes e una di Doctor Who?, gli autori obbligano a entrare nella loro testa, apprezzare loro e quell’ostinazione che parla di un meraviglioso legame d’amicizia che è raro trovare.
Non è perfetto, non fraintendiamoci: talvolta quella voglia di aiutare il lettore a capire un mondo del quale verosimilmente non si ha una grande cognizione ha il sapore di una glossa, una spiegazione a margine di un maestro che ha voluto render la lettura più agevole senza rendersi conto che avrebbe potuto spiegare mostrando anziché istituendo una relazione quasi educativa. È una piccola cosa, niente di monumentale, che non pregiudica la qualità del testo, che, anzi, sicuramente dà la possibilità di assaporare storia e tradizioni indiane e al tempio stesso sa come catturare l’attenzione e mantenerla.
Voto: <3"><3"><3"><3 <3"><3"><3"><3 <3"><3"><3"><3