Luang Namtha, due passi nella foresta primaria della valle del Nam Ha
Se ripenso al viaggio in Laos c’è un posto che si fa largo fra i ricordi, un’immagine che emerge più forte e nitida delle altre. Più che un luogo è un lungo momento, dai contorni sfumati, che si confondono con il sogno. Già mentre lo vivevo sapevo che sarebbe stato irripetibile. E’ un’immagine che si muove: ricordo i fuochi al crepuscolo, il placido scorrere del fiume Nam Ha, la vita semplice del villaggio khmu che scorreva attorno a noi secondo un ritmo antico, quasi indifferente alla nostra presenza. E poi c’erano le stelle che cominciavano a comparire in cielo mentre mi massaggiavo le gambe doloranti dopo le faticose ore passate nella giungla, quello stesso groviglio scuro di piante che ora ci abbracciava da ogni lato e aveva smesso di suscitarmi inquietudine. So che le gambe mi facevano male, ma la fatica, la stanchezza, nella mente svaniscono, sono mute: resta solo la purezza di quel momento, in quel villaggio di palafitte che non conosce strade.
La sera nel villaggio, un breve video
A Luang Namtha
Risaie a perdita d’occhio a Luang Namtha (foto di Patrick Colgan, 2014)
Siamo arrivati a Luang Namtha per fare uno dei migliori trekking del Laos nella riserva naturale della valle del Nam Ha. Del resto, in questa polverosa città a due passi dalla Cina non c’è molto altro: giusto alcune guesthouse e ristoranti lungo uno stradone al servizio dei tanti backpacker che frullano da queste parti lungo il banana pancake trail. Dietro, nelle vie secondarie, ci sono cubi di cemento con qualche casa e qualche attività: gommisti, negozi di ferramenta, qualche strano ristorante per noi indecifrabile. C’è anche – sorpresa – un fornaio che fa ottimi muffin alla banana.
Il mercato notturno di Luang Namtha (foto di Patrick Colgan, 2014)
I posti interessanti per noi sono forse due. C’è il mercato notturno, dove si può cenare con lo street food e avventurarsi in qualche assaggio spericolato: ci sono anche insetti e bachi da seta fritti e per un attimo, solo per un attimo, ho la tentazione di cercare le uova di formica rossa di cui scriveva Terzani. Ad andare per la maggiore fra gli occidentali sono i più rassicuranti polli e anatre arrosto. Ma se vuoi la cena calda devi chiederlo. Qui la temperatura del cibo ha poca importanza (non quella delle bevande, sempre servite con abbondante ghiaccio).
Il mercato notturno di Luang Namtha (foto di Patrick Colgan, 2014)
E poi c’è il Bamboo lounge, un bar ristorante che per quanto possa sembrare strano prepara un’ottima pizza. E’ un posto molto turistico, come tutto qua, ma con una bella storia: ci lavorano ragazzi dei villaggi che vogliono imparare l’inglese e i prodotti sono tutti del posto. Anche i cocktail sono realizzati col distillato locale, il lao lao.
Qualcuno quando sente parlare di cibo occidentale storce il naso e fa bene: mangiare il cibo locale è un modo per entrare in contatto con la cultura e uno dei piaceri sul viaggio. Ma dopo giorni di varianti a base di riso glutinoso avevo bisogno di una pausa. E non va dimenticato che il sud est asiatico attira viaggiatori che misurano il tempo in settimane e mesi, non in giorni. E dopo mesi di cibo asiatico un pasto occidentale ha un sapore particolare: sa di casa.
Le agenzie
Qui andare da soli è impensabile, serve una guida. Abbiamo già prenotato il trekking di due giorni con l’agenzia Green Discovery (scoperta grazie al post di Silvia), ma gli uffici che propongono escursioni sono numerosi e ognuno espone lavagnette con i trekking in programma nei giorni successivi e il numero di persone iscritte. Più si è meno si paga, naturalmente, anche se pare che qualcuno faccia il furbo: a volte la mattina capitano misteriose rinunce e la tariffa aumenta.
Il nostro percorso, due giorni di cammino con notte in un villaggio nella giungla, è indicato come ‘easy to moderate’, ma leggendo un po’ in giro ho visto molti post che parlano di una camminata dura e mi preparo mentalmente.
Tentiamo di mantenere al minimo il peso dei nostri zaini, ma non è facile. Ci vuole un cambio completo, il necessario per dormire nel villaggio (spazzolino, medicinali di prima necessità, noi aggiungiamo pure un sacco lenzuolo), repellente per insetti, una torcia frontale, una giacca da pioggia, un asciugamano. E poi la reflex. Io mi sono portato anche gli scarponi da montagna anche se in realtà sarebbero andate benissimo scarpe da trekking intermedio, più leggere.
Tutti i nostri piani vengono sconvolti quando ci rendiamo conto che dobbiamo portare con noi anche tre litri d’acqua a testa. Due bottiglie che ci vengono messe in mano all’agenzia poco prima della partenza. Alla fine il mio zaino è probabilmente di almeno otto chili.
Il trekking nella giungla
Dopo esser scesi dal minibus ci siamo lasciati alle spalle le risaie e dolci, rassicuranti, pendii di un verde luminoso e siamo entrati in un mondo oscuro e sconosciuto. Qui la luce non arriva. Le piante la bramano e si avvolgono l’una all’altra, ognuna cerca di arrivare qualche centimetro più in alto, di avere un pezzetto di luce, anche se significa soffocare, sopraffare altre vite. Gli alberi secchi diventano supporto per rampicanti, quelli caduti vengono avvolti da arbusti, radici, liane. E’ lotta per la sopravvivenza, mondo spietato, ma non è maligno: qui vita e morte si confondono e si succedono l’una all’altra.
Nam Ha (foto di Patrick Colgan, 2014)
Nam Ha (foto di Patrick Colgan, 2014)
Nam Ha (foto di Patrick Colgan, 2014)
Nam Ha (foto di Patrick Colgan, 2014)
Io però non lo comprendo, questo mondo. E’ solo un sentiero, ma sento odori, suoni, vibrazioni che non riconosco. Ogni tanto chiedo a Kip, la nostra guida, qualche spiegazione su rumori e piante che ci descrive con parole semplici ma efficaci. Sembra aver visto, maneggiato, assaggiato tutto. Ma mentre parla non riesco a togliere lo sguardo dai suoi piedi magri e nervosi che chissà quanta strada hanno calpestato. Come molti laotiani indossa solo un paio di infradito di gomma e le sue estremità sanno sempre esattamente dove trovare l’appoggio perfetto. Mentre i miei scarponi affondano nell’acqua e nel fango le sue ciabatte restano incredibilmente pulite. Forse, se potesse permettersele comprerebbe le scarpe, dice una ragazza che è nel nostro piccolo gruppo. Ma in realtà non gli servono. Sembra davvero muoversi come se fosse nel suo salotto di casa. E in salotto indossi, per l’appunto, le ciabatte.
Nam Ha (foto di Patrick Colgan, 2014)
Papaya, legumi e carne, riso (foto di Patrick Colgan, 2014)
Poi arriva la salita, anzi, le salite. Me le aspettavo, perché il panorama è tutto a ripide colline vicinissime l’una all’altra che incombono su strette valli. Sono strappi quasi verticali che spezzano le ginocchia. L’umidità soffoca, il sudore impregna i vestiti che si schiacciano sulla pelle fino a diventare un tutt’uno gelatinoso. Qualcuno si ritrova con una sanguisuga attaccata alle gambe, zanzare e moscerini ti avvolgono appena ti fermi. Lo zaino è troppo pesante e, nonostante mi consideri ben allenato, mi devo fermare più per rifiatare, spezzando il ritmo del gruppo che per qualche ragione che non riesco a cogliere, sembra salire quasi senza fatica. Di solito scalare, arrampicarsi è il momento più esaltante di una camminata, l’ascesa è conquista. Ma non riesco a trovare il mio passo, a far muovere le mie gambe da sole come al solito. Forse sono troppo attento a questo luogo che non ho mai visto e questa leggera tensione mi sta facendo perdere energie.
Ci fermiamo per il pranzo. Insalata di papaya, carne piccante e riso glutinoso che mangiamo seduti per terra, con una grande foglia di banano come tavolo.
Il villaggio nella giungla
La foresta a un certo punto si apre, dopo una ripida discesa. Incontriamo una donna, poi vediamo le prime capanne fra il verde delle risaie, sentiamo il rumore di animali: cani, maiali, galline. C’è un villaggio. Provo un’inaspettata sensazione di sollievo, come se fossi via da settimane. Forse è solo la stanchezza, sento che non riuscirei a camminare ancora a lungo. Non siamo ancora arrivati però. Questo è un villaggio di Yuan, un gruppo etnico proveniente dalla Cina. Le donne vestono gli abiti tradizionali e hanno fattezze diverse dai laotiani che abbiamo visto finora. Alcune vendono per pochi soldi braccialetti cuciti a mano e il prezzo è indicato su un foglio con ideogrammi cinesi.
Donne Yuan, Nam Ha (foto di Patrick Colgan, 2014)
Il nostro villaggio – di etnia khmu – è poco dopo e, per quanto sia il più remoto, è probabilmente quello meglio tenuto visto finora. Non c’è elettricità (a parte una batteria da auto che illumina una singola casa), non ci sono strade, gli animali si muovono liberi fra le palafitte, ma c’è un’armonia che non abbiamo avvertito negli altri villaggi.
Non è un mistero che la nostra agenzia lavori con le minoranze etniche, che vengono compensate per ospitare i turisti e preparare la cena, e si vede. Veniamo accolti con un po’ di timidezza e di curiosità e alcuni larghi sorrisi, ma il nostro arrivo non sconvolge la vita del villaggio che prosegue senza sussulti, indifferente. Anche io sorrido. Ma è solo quando mi immergo nelle acque fredde e incredibilmente limpide del Nam Ha per lavarmi, che i pensieri finalmente si schiariscono, il fardello della fatica si solleva dagli occhi e comincio a rilassarmi, e a vedere davvero.
Nam Ha, si riparte, attraversando le risaie (foto di Patrick Colgan, 2014)
Nam Ha, Luang Namtha (foto di Patrick Colgan, 2014)
Nam Ha, il villaggio sulla strada. Il cammino è ormi finito (foto di Patrick Colgan, 2014)
Informazioni utili
Consiglio sia dal punto di vista della qualità che da quello etico la nostra agenzia Green Discovery Laos. Wiki travel elenca le agenzie di Luang Namtha e non tutte ricevono giudizi positivi. Alcune agenzie propongono anche escursioni miste con trekking a piedi e kayak.
Trasporti
A Luang Namtha si può arrivare in bus da Huai Xay (confine thailandese) con quattro ore di bus su strade molto buone o da Luang Prabang, otto ore – anche notturne -metà delle quali su strade infami. Oppure si può arrivare, come noi, unendo navigazione e bus (da Udomxai).
Foto di gruppo alla fine, sulla sinistra le due guide