Questa ‘Trilogia di New York’ è, inutile dirlo, un libro su New York. È anche una raccolta di tre racconti lunghi, tre detective stories, per essere precisi, scritte fra il 1985 e il 1986. È un’opera in cui la componente psicologico-esistenziale è importante quanto quella del mistero. È, infine, un esempio palese di narrativa postmoderna, in cui i continui riferimenti alla tradizione letteraria americana, la presenza trasversale ai tre racconti di alcuni personaggi, l’affiorare di riflessioni dell’autore sulle proprie tecniche narrative e sulla propria conoscenza più o meno approfondita delle personalità di cui racconta rendono palese l’artificio letterario.
Nel primo racconto, ‘Città di vetro’, uno scrittore in crisi e dal passato tragico viene sorpreso nel cuore della notte da un’accorata richiesta di aiuto. Qualcuno l’ha scambiato per un investigatore privato (di nome Paul Auster!), e lo implora di intervenire: ha poco tempo, teme per la propria vita. Quinn (è questo il nome del protagonista) all’inizio cerca di chiarire l’equivoco, ma poi le telefonate si ripetono, l’interlocutore è sempre più insistente, la sua voce è rotta dall’angoscia: Quinn si spaccia per Paul Auster, e inizia a indagare su personaggi singolari e su strane teorie scientifico-religiose.
Nel secondo racconto, ‘Fantasmi’, a mio avviso il più riuscito, l’investigatore Blue deve spiare, per conto di White, un terzo uomo, Black. All’inizio il lavoro sembra facile, Black è un intellettuale, scrive senza sosta ed esce poco, difficile perderlo di vista. Ma poi Blue inizia a sospettare che questa calma piatta nasconda qualcosa, capisce che limitarsi a spiare dalla finestra di fronte non lo porterà a nulla. Nel frattempo, inizia a riconoscersi in quell’uomo, perde i contatti con la propria vita precedente, investigatore e oggetto dell’indagine si confondono, i loro ruoli si sovrappongono. Nel terzo e ultimo racconto, ‘La stanza chiusa’, Fanshawe, scrittore brillante ma irremovibile nella decisione di non pubblicare, scompare nel nulla. Un suo amico d’infanzia, giornalista mediamente realizzato, viene chiamato dalla moglie dello scrittore a valutarne gli scritti per curarne un’eventuale pubblicazione, ma gradualmente la necessità di conoscere il destino dell’amico e, insieme, di liberarsi della sua ombra lo assilla sin quasi a fargli perdere la ragione.
New York è lo sfondo ideale e reale delle vicende, ma al tempo stesso è un non-luogo, asettico, immutabile, al riparo dalle angosce. L’indagine, per il detective, diventa realizzazione del proprio essere finalmente compiuto, scoperta del significato della propria esistenza. O, meglio, illusione di questa scoperta: nell’ultimo racconto, tutta la verità è in un taccuino rosso in cui, pagina dopo pagina, si realizza la più totale mancanza di senso, e non si può far altro che distruggerlo e ricominciare da zero. Indagare, quindi, significa scoprire il proprio lato oscuro, spiare l’altro per riconoscersi in lui e sentirsi vivi, in nome di quella costante ricerca di senso in cui l’uomo del ’900 è irrimediabilmente immerso.
Marina Lomunno
Paul Auster, Trilogia di New York, Einaudi, 314 pagg. euro 11,50.