di Marco Cagnotti
Nel numero 853 di “Internazionale”, nella sua rubrica “Scuole”, Tullio De Mauro affronta la questione della trasmissione delle radici della cultura classica nella scuola. E dice cose condivisibilissime.
Non bastano l’istruzione tecnica o la sola istruzione scientifica. Anche queste, ossessionate dall’inseguimento delle ultime novità, sono monche e improduttive se non si collocano nel più ampio e ricco orizzonte critico che solo l’educazione letteraria, storica e filosofica sa dare e che è indispensabile al fine di formare intelligenze di cittadini democratici consapevoli dei diritti propri e di tutti gli umani. (…) Buttare via greco e latino dalle scuole è un delitto contro la formazione di cittadini critici, creativi e democratici.
Forse il mio odio atavico per il latino mi rende la persona meno adatta per esprimere un giudizio. 30 anni fa avrei commentato: “Eccheccazzo! Buttatelo via e liberatecene!”. Oggi invece condivido in toto quanto scrive De Mauro. D’altronde buttare via qualsiasi cosa dalle scuole è un delitto eccetera eccetera. Vogliamo forse sacrificare le scienze? Col risultato di sfornare ignoranti sul proprio posto nell’immensa economia del cosmo? Ma… è davvero necessario buttare via qualcosa?
Per semplicità considererò solo il caso della scuola italiana (ma nel resto d’Europa non cambia granché). Dopo le Elementari, le Medie e le Superiori, la cultura generale di uno studente dovrebbe essere pronta e cucinata per essere servita all’università, dove il giovincello si formerà la propria cultura settoriale, indispensabile per entrare nel mondo del lavoro. Se diventerà un fisico, la sua cultura storica sarà quella del liceo. Se sarà uno storico, la sua cultura biologica si baserà pure sulle reminiscenze liceali.
Elementari, Medie e Superiori: in tutto, fanno 13 anni di scuola. Ora, oggi, adesso… esattamente come 87 anni fa, all’epoca della Riforma Gentile. Solo che nel frattempo sono accaduti alcuni fatterelli che sarebbero dovuti finire nei programmi scolastici. Che di fatto sono finiti nei programmi scolastici, ma che poi gli studenti, per mancanza di tempo, non riescono a vedere se non di sfuggita (qualsiasi professore di qualsiasi materia ve lo confermerà). Gran parte della storia del Novecento, tanto per dire: bazzecole come l’Olocausto, una Guerra Mondiale, la decolonizzazione, il crollo dei regimi comunisti europei. E poi la meccanica quantistica, che negli Anni Trenta era sul confine della conoscenza come oggi la teoria delle stringhe, ma che dovrebbe rientrare nella cultura generale di un cittadino consapevole del XXI secolo. E che dire dei grandi autori del Dopoguerra? O della genetica e della sintesi moderna? O delle lingue straniere? Ai tempi di Gentile bastava un’infarinatura di francese. Oggi se non sai l’inglese alla perfezione non sei nessuno. E nemmeno l’inglese, da solo, ormai è sufficiente.
Gli anni di scuola, però, sono rimasti sempre solo 13. Rosica di qua, rosica di là, alcune materie ci hanno rimesso più di altre, ma insomma si cerca di comprimere tutta questa roba in crescita inesorabile in quei 13 anni. Attenzione: la mia non è una critica alle stupide riforme scolastiche di questo specifico governo. E’ invece un discorso di principio.
Il sapere cresce: su questo non ci può essere discussione. Si fanno nuove scoperte, nuovi fatti entrano nella storia, nuove opere d’arte vengono prodotte. Se si cerca di ficcare a forza tutta questa roba nelle stesse teste (peraltro… ma questo è vero da sempre… alquanto refrattarie) nello stesso tempo, qualcosa si dovrà pur sacrificare. O si segano delle materie in blocco (oplà!… via il latino e il greco!), creando voragini culturali e una perdita di consapevolezza (e De Mauro ha perfettamente ragione), oppure si lima tutto un po’, col risultato di una cultura vieppiù superficiale, senza spessore. Non se ne viene fuori: la quantità di materia è quella, lo spazio quell’altro. E l’una non sta dentro l’altro. Che facciamo?
Una soluzione ci sarebbe. La più razionale: aumentare lo spazio. Ovvero si prolunghi la scuola di… un anno, to’. Anche due. Esami di maturità non più a 18-19 anni, ma a 20-21.
Uh, già sento gli improperi: “Ma sei scemo? All’università più vecchi?”. Che per la verità non sarebbe male: anche più maturi, quindi probabilmente più motivati. Ma soprattutto… “Nel mondo del lavoro più vecchi?”. Eh, già. Il mercato li vuole sempre più giovani, mannaggia. Come avevo fatto a dimenticarmene?
Il mercato, il mercato… Sai che c’è? ‘fanculo al mercato. Se solo si potesse…