Nessuno, di tutte le persone incrociate in questi primi giorni di Cina, mi aveva parlato bene di Shangri-La. Avevo sentito opinioni diverse in passato – “troppo turistica” dicevano alcuni, “un pezzo di Tibet” dicevano altri – ma oggi il problema che poneva il dubbio della partenza era un altro: l’incendio.
Shangri-La sorge nel nord-ovest della regione dello Yunnan, ai confini con il Tibet, e porta un nome un po’ mistico che tutti hanno sentito almeno una volta, ma nessuno sa bene il perché. Shangri-La, originariamente, era un luogo immaginario. Un luogo immaginario, immaginato dallo scrittore James Hilton, che nel 1933 pubblica The Lost Horizon, libro in cui narra di una terra esotica, perfetta, felice ed isolata dal resto del mondo situata in una vallata tibetana ai piedi dell’Himalaya. Shangri-La diventa così un simbolo, un’idea, un’utopia. E, più tardi, una città.
In molti nel corso degli anni hanno cercato di locare il luogo da cui lo scrittore ha tratto ispirazione. Secondo alcuni la descrizione combacia con la Hunza Valley in Pakistan, ma la mancanza di una cultura buddhista rende il luogo incompleto. Il Tibet ha indicato diversi posti che potrebbero essere la mitica Shangri-La, e così ha fatto la regione cinese del Sichuan che con il Tibet combacia. Senza mai ottenere alcun tipo di conferma, però, su una Shangri-La fisica, esistente, non si è mai potuto puntare il dito, finché un giorno, nel 2001, il governo cinese interviene con un piano molto semplice: dare ad una delle proprie località questo nome e risolvere così la questione una volta per tutte.
Zhongdian ha tutte le caratteristiche necessarie: verdi colline poco abitate, una ridente comunità tibetana, picchi elevati che fanno da sfondo ai vasti paesaggi, più laghi, fiumi, monasteri, vallate ed un’atmosfera rilassata a condire il tutto. Zhongdian è la cartolina che tutti vorremmo spedire a casa, con un piccolo difetto: nessuno ne conosce l’esistenza. Mentre la vicina Lijiang è già una calamita per il turismo di massa, questa meta potenzialmente attraente rimane ancora poco visitata, così, con un colpo di genio, la Cina decide di cambiare questa situazione trasformando Zhongdian in Shangri-La.
Per chi si chiede ancora cosa sia Shangri-La la risposta è quindi una sola: un’operazione di marketing. Non c’è motivo per questo luogo di esitere in questa forma, se non quello di spingere i turisti (come me) a spendere soldi in quest’area. Ma saranno davvero così stupide le persone da spostarsi in flotte verso una destinazione solo perché le è stato cambiato il nome? Sì, dal 2001 c’è stato un incremento costante nel turismo verso Shangri-La, che seppur non abbia mai raggiunto i livelli di Lijiang ha sicuramente cominciato a basare parte della propria economia sui nuovi visitatori. Fino a quest’anno, il 2014, in cui l’intero centro storico è stato raso al suolo da un incendio.
Perché, alla luce di tutto questo, sono andato comunque a Shangri-La? Era per strada, potrei dire. Oppure per dire di esserci stato. O perché è l’unico modo di avvicinarmi al Tibet. Ma no, la verità è un’altra. La realtà è che tutta questa storia mi incuriosiva. Mi incuriosiva il fatto che oggi basta davvero scegliere il nome giusto, il simbolo adatto (il logo?), nonostante il contenuto, per smuovere le masse. Mi piaceva andare a vedere se davvero i cinesi hanno capito tutto, se veramente in tutte quelle storie su turisti e viaggiatori, alla fine dei conti non siamo altro che pecore. Volevo capire però, anche se Shangri-La è effettivamente solo un nome vuoto oppure se era veramente una meta promettente che aveva bisogno di una spinta per essere apprezzata. E poi c’era questo incendio, non suona un po’ sospetto che il cuore di una comunità tibetana in Cina che sta acquisendo lentamente importanza viene d’un tratto polverizzato? C’erano tante domande, a cui non pretendevo di trovare risposta nei pochi giorni a disposizione, ma per cui valeva sicuramente la pena fare tre ore in più di autobus.
Arrivando a Shangri-La si cominciano a vedere le immense case tibetane al centro di prati su cui pascolano cavalli. In queste case vivono più generazioni e tutti gli spazi sono condivisi. Sono molto più grandi del necessario, è vero, ma altrettanto semplici e poco appariscenti. Le colline sono punteggiate da diverse stupa, e poi un monastero rosso scuro appare in controluce. L’ingresso alla città – perché Shangri-La è ormai di fatto una città, non un villaggio – è deludente, con palazzi di cemento che si susseguono su strade che formano una griglia. Bisogna arrivare alla parte vecchia della città perché i tetti si abbassino e le strade si stringano.
Ci sono pochi turisti a Shangri-La. La Dragoncloud Guesthouse ospita tre o quattro coppie, tutti qui per un giorno o due. Ero stato avvertito: con la principale attrazione, il centro storico, scomparsa, purtroppo rimane poco da fare e quel poco si paga caro. Sì perché questa è la Cina, e non c’è attrazione turistica che non sia resa esplicitamente tale da un prezzo d’ingresso. Il monastero più importante della città costa 30 dollari – quando di centinaia di monasteri visitati non ho mai pagato più che una donazione – e anche uno spontaneo giro in bicicletta per vedere i dintorni si dice sia uno slalom tra villaggi “autentici” che per essere attraversati richiedono un biglietto d’ingresso di un’altra decina di dollari. Non ha senso. Non è un luogo da scoprire ed è inutile provare a fare le cose a modo proprio. La voglia di esplorare passa in fretta e l’alternativa è farsi trascinare dagli eventi, sperando che qualcosa d’interessante si mostri da sé.
L’incendio apparentemente è stato un incidente. Nessuno parla di cospirazioni o altri film che mi ero fatto in testa, e il triste fatto sembra essere niente di più che un caso. La preoccupazione maggiore per gli abitanti di Shangri-La sta nei turisti che stanno già smettendo di arrivare e per la minoranza tibetana in Yunnan è difficile competere con il grande popolo Han che ha in mano il commercio nella parte nuova della città. Il governo è però venuto in aiuto dopo il disastro, rimborsando gli abitanti del centro per la perdita, permettondo a tutti di ricostruire i propri negozi e le proprie case. Quasi tutti. Sì, perché scopro che c’è una parte ben specifica della popolazione che non riceverà niente: tutti coloro che nel Dicembre 2013 hanno viaggiato in India per ascoltare il grande discorso annuale del loro capo spirituale, il Dalai Lama. Una punizione che è un messaggio chiaro per tutti i tibetani: rinunciare alla propria tradizione per poter sopravvivere in Cina.
Nella mia ricerca di intrattenimento, dopo aver visitato il museo tibetano in cui viene descritta con immagini e testi la epica liberazione del Tibet da parte della Cina, mi trovo prima a discutere con un professore d’inglese sulla vita da queste parti, poi a prendere lezioni di scacchi cinesi e infine entro in una scuola d’arte Thangka, per vedere che succede, e mi trovo a disegnare Buddha secondo le indicazioni di un gruppo d’artisti. Non ci vuole molto a trovare qualcosa di interessante da fare per cui non sia necessario un biglietto, in fondo, basta guardarsi intorno. Gli artisti sono in realtà un gruppo di orfani, anche loro originari del Tibet, per i quali un imprenditore della zona sta mettendo in piedi la scuola, che diventerà poi anche una galleria e un centro di attività per i visitatori. L’uomo, che è proprietario di tre hotel nella zona, si muove sempre in supporto alla comunità, organizzando riunioni per i monaci e cerimonie mensili. La foto, incorniciata, del Dalai Lama, viene tenuta nascosta e tirata fuori sono nelle occasioni speciali. A gestire l’appena nato progetto della scuola d’arte è però un ragazzo argentino, Augustìn, trasferitosi a Shangri-La per approfondire la conoscenza dell’Oriente offrendo in cambio il proprio lavoro. “Non saprei che prezzo pagare per vivere qui” mi racconta. “La pace, la vista… C’è un sacco di lavoro da fare, ma sono felice qui“.
Forse il fatto è che Shangri-La, per quelli come noi – i turisti – non esiste. Non importa quanto la si cerchi, quali aspettative si abbiano, quale storia si provi ad inseguire, non la si troverà scendendo da un autobus e pensando già a quando salire sul prossimo. Forse Shangri-La c’è e, magari, Shangri-La è proprio qui, tra le forme ondulate di Shangri-La, ma non è per chi passa a fare due foto, per chi storce il naso di fronte alle contraddizioni della Cina, per chi crede che i biglietti d’ingresso conducano ad una nuova realtà. Forse Shangri-La è per chi si ferma, per chi si prende il tempo di scavare sotto la superficie, conoscere le persone e piantare radici. Per quelli come Hilton, o Augustìn. Dico forse, spero in un forse, perché io, questo, davvero non lo so.