Qui dove la terra finisce e il mare attende.
La scritta era siglata su un pezzo di cartoncino spesso, un segnalibro originariamente senza corpo, se non una patina bianca e ruvida, su cui imprimere personali parole e dargli quindi una veste precisa.
Quel rettangolo sottile sporgeva irriverente ma delicato, a tenere il passo di uno scorrimento di pagine e fermarne il corso, precisamente a pagina 42.
Vanni aveva un occhio distratto dal movimento che il vento creava con il segnalibro, un lieve battito d’ali sul ciglio dell’involucro cartaceo, mentre il resto della sua attenzione era supina e concentrata ad accordare la sua chitarra jazz.
Livia era distesa a lato, con il gomito che macinava pochi centimetri di distanza dal fianco destro di Vanni, seduto a cavalcioni, concentrato su quel lavoro di corde e dita.
Su Parco Sempione si era riversato un fascio di luce dalle forti tinte giallo antracite, colore sporcato dal consueto pulviscolo di smog e alienazione che raccontava una comune Milano.
Tentativi di sopravvivenza dentro pomeriggi conditi dall’ozio e dal bisogno di contatto con la natura, quella vera, senza il contorno di circolari veloci e tram frenetici.
Livia si rifugiava al parco ogni volta che la città le iniettava un grave senso di soffocamento e asfissia.
Parco Sempione. Uno dei pochi luoghi vergini e scollegati da quell’ingombrante carrozzone invadente e griffato che era Milano.
Avvertiva il peso del cemento e l’oblio del caos prodotto da schizofrenie consumate per strada da uomini in processione lobotomizzata tra le vie del centro, le vetrine sgargianti, il vociare sguaiato.
Milano era una metropoli tossicodipendente di ogni ordinaria e ossessiva routine, o almeno così la guardava Livia.
Leggeva, portando i suoi occhiali vintage dalla montatura concentrica dritti e sgranati sulla sagoma di Vanni. Leggeva in modo vago e senza grazia, poiché la presenza di quel ragazzo che le sostava vicino, con la sua zazzera di capelli corvini a sipario degli occhi, destabilizzava ogni sua attenzione bonaria, la rendeva tesa e rigida.
La flebile distanza che regnava tra i loro corpi fungeva da passaporto salvifico per accedere all’abnegazione emotiva in cui Livia si era mestamente calata. Una stratificazione di tempi sbagliati ed errori incalzanti, forse fin dalla prima volta in cui i loro destini trovarono un intreccio comune, aveva portato Livia a rimanere inerme rispetto al ruolo che Vanni le aveva attribuito con la noncuranza degli indifferenti non occasionali.
Tom Yorke and Plastic Friends Band, una cover dei Radiohead, la serata concerto che si teneva a Le Scimmie dietro i il naviglio grande.
Livia era uscita a fumare, insofferente a una certa calca e a un’aria consumatasi nel mentre del concerto.
Vanni aveva appoggiato il dorso sulla ringhiera che divideva il fiume dalla strada, e intanto spartiva poche chiacchiere con i compagni di serata tenendo in mano una birra ormai calda.
Accade che il tempo si mostri agli uomini nelle vesti di bolle d’aria invisibili e in grado di racchiudere piccole porzioni di spazio commestibile, spartiti di luoghi e persone che incespicano nel loro muoversi dentro, inconsapevoli che per pochi attimi la condivisione di quello scherzo irreale ma ben curato potrebbe determinare gli incontri che cambiano il corso dei giorni.
Accadde questo, che Vanni e Livia furono risucchiati da quella bolla senza corpo e che i loro sguardi segnarono nel contempo la stessa traiettoria invisibile.
Si guardarono, ognuno con il loro fare genetico, Livia con il suo consueto piglio diffidente ma innaffiato da recondita curiosità, Vanni con il suo volto pulito e colto da stupori quotidiani, come un bambino che scopre per la prima volta il mondo fuori.
Si ritrovarono a parlare del concerto, del caldo, di quanto Milano fosse priva di bellezza ma ottima per inventarsi un’uscita, dell’aumento del prezzo delle sigarette, di come la birra non fosse più fredda come in passato, e che Vanni avrebbe aspettato Livia fino alla fine della performance, che avrebbe lasciato gli amici stuprare la notte da soli, della necessità di cambiare posto e di andare alla ricerca di un altro dove servissero ancora la birra fredda.
Livia non accennò a declinare quell’invito, nonostante Vanni fosse uno sconosciuto ordinario ma simpatico, semplice ma diversamente banale, pur sempre estraneo, incredibilmente affascinante.
Scipparono le ore al monotono e quotidiano mostrarsi delle stelle, si ubriacarono di strade e soste alcoliche, non risparmiarono risate e dimenticarono il volto dei silenzi che odorano di morte, scoprirono solo in seguito che l’unico suono che echeggiava in quella notte senza fantasia erano le loro voci intrecciate e distese, come una canzone dolce e suadente che va a celare retrogusti di triste termine, perché prima o poi le note cessano di vivere, come l’ora dei saluti obbligatori, ma la movenza di quel canto viene trattenuto oltre l’esecuzione, oltre l’ultima corda pizzicata, oltre il vuoto sonoro che accompagna ogni lascito musicale, oltre il distacco congedatosi al capolinea inevitabile davanti al portone di casa. Oltre ogni sbagliato Arrivederci.
Livia tratteneva quel ricordo di incontro come una buona sorte scippata alla sua genitrice, a qualche grinza del cuore, in qualche fitta vascolare, che premeva forte i muscoli intorno, e non le permise di rinunciare al respiro di Vanni, come prezioso ossigeno da pompare quotidianamente in cambio di una sopravvivenza indotta e senza margini di libera uscita.
…I’m not living I’m just killing time Your tiny hands Your crazy kitten smile…
Senza annunciare l’accordo, mordendo il silenzio docilmente e senza troppo rumore, Vanni iniziò a suonare, a intonare quella musica, quella canzone precisa.
Just don’t leave, don’t leave…
Senza guardare Livia, con il volto diretto verso uno spazio circoscritto e solo suo, Vanni continuava a suonare, il sole come unico compagno di note, a coronare quell’attimo sospeso, sublime, da figurarsi in un qualsiasi luogo, non necessariamente Parco Sempione, Milano, l’Italia, come a risiedere in un altrove curato a maniera, un quadro di Manet, un interludio purissimo, sbavato dall’erba e dagli occhi invisibili di Livia.
And true love waits In haunted attics And true love lives On lollipops and crisps….
Livia tratteneva il fiato a stento, tenendo in apnea pelle e polmoni, fingendo di essere rapita dalla lettura, simulando una diversa attrazione, recitando una distrazione urgente, perchè il dolce abbandono a quelle parole così perfette e puntuali, quelle parole che avrebbe voluto urlare, non era possibile, non praticabile, proibito, non pervenuto.
Vanni si mosse, poggiò i suoi fari color petrolio sulla fronte di Livia, si sporse verso il suo corpo, e con una mano tremante dal pregresso pizzicare, le accarezzò i capelli.
“Il vero amore aspetta, non trovi?”
Livia ritrovò quel calore epidermico che era mutato in ricordo, ora che era ferma fuori dal Bistrot, e lo ritrovò vivo, come se Vanni l’avesse appena sfiorata, si ritrovò dentro e sentì quel medesimo brivido che la colse allora, quando non fu in grado di dire niente di efficace se non un tremendo “mmm”, per poi dargli le spalle, quasi svogliata, e piegarsi dal lato opposto, senza proferire alcun suono, mentre tutta un’architettura emotiva crollava dentro di lei, con lacrime dal sapore di mattoni sbriciolati al sole.
Teneva la busta tra le mani.
Sapeva che non poteva più esimersi dal continuare a leggere, sapeva che quelle parole restanti avrebbero bruciato come benzina fresca gettata su squarci di carne dall’emoglobina viva, avrebbero arso vecchi difetti, ma non aveva più scelta, ora che aveva esaurito scorte di sciocco orgoglio ed eretica freddezza.
Si spinse verso il Canale, stringeva al petto la lettera e una manciata di battiti scappati dal cappotto e amplificati a dovere come a darle l’idea della portata dell’amore che Vanni era ancora in grado di scatenare, di ricostruire, di alimentare.
Scorse una panchina arruginita al bordo del fiume, e la scelse. Perchè Livia viaggiava al bordo dei suoi sogni, al confine dei suoi tanti vorrei, vivisezionando la distanza che intercorreva tra lei e Giorgio, povera anima lontana e inconsapevole, e poi Vanni, e uno sterminato sentiero di passione compressa e trattenuta che stava andando a schiudersi con forti scosse, come al passaggio di un auto senza controllo.
Si sedette. Prese posizione. Poggiò sulle gambe accovacciate la busta ed estrasse nuovamente la lettera, ma prima di ricominciare la visione di quel flusso d’inchiostro, si fermò ancora una volta e pensò a quanto fu sprecato quel giorno al parco, quanto fu stupido quel chiudersi a istrice, quanto fu banale e sgarbata quella sua risposta elargita in modo repentino, di fronte a un quesito che mozza l’anima e la induce ad un coma vigile.
Sarebbe valso un semplice “Si”, perchè il vero amore aspetta, e non ha bisogno di aggiungere altro.
True Love Waits – Radiohead