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Truzzo, tamarro e zarro…

Creato il 06 marzo 2012 da Marvigar4

intervallo pecore

   Nella mia città, Lucca, fino agli anni ’80 per indicare il ragazzo rozzo che vestiva in modo pacchiano, non studiava, andava in discoteca, truccava la moto e parlava sboccato si usava l’espressione “gabbano”, forse in riferimento al termine “gabbana”, l’antico nome del cappotto o veste larga indossata dai contadini (l’etimologia dovrebbe essere l’arabo qabâ). Questa espressione oggi è in disuso, le nuove generazioni non la adoperano più, al suo posto c’è un ventaglio di altre parole molto diffuse in Italia:

   Truzzo – Nel centro-nord sta imponendosi questa voce che pare derivi da un cognome molto diffuso nelle province di Bergamo e Brescia, Truzzi, oppure da “trus”, torzolo nel dialetto piemontese. Il truzzo è il tipico ragazzotto che veste in modo sgargiante, frequenta la discoteca, si impasticca e non ha molte pretese intellettuali, anche se frequenta la scuola. L’unico vero obiettivo del truzzo è lo sballo, la preparazione metodica, monomaniaca settimanale per il week-end rappresenta l’intera norma di vita e tutto ciò che gravita al di fuori di essa non è degno di interesse. Esiste anche la truzza, la variante al femminile, che di solito si accompagna con amiche o partner sulla stessa lunghezza d’onda.

   Tamarro – Lemma di area meridionale, tamarro è sinonimo di persona, soprattutto giovane, dai modi grezzi che veste abiti vistosi e di cattivo gusto. Non so quanto sia convincente l’etimologia che fa discendere questa espressione dall’arabo tammār, venditore di datteri, certo è che il tamarro si esibisce come un banditore grossolano di uno stile di vita vuoto e senza contenuti, come il collega truzzo.

   Zarro – A Milano, Roma, Torino c’è un altro vocabolo, zarro, non se ne conosce bene l’origine, ma il significato è praticamente il medesimo di tamarro. Il Dizionario Italiano di Aldo Gabrielli definisce lo zarro “Giovane di bassa estrazione sociale e dai modi rozzi, che ostenta goffamente un modo di vestire appariscente e alla moda”.

   In generale, l’uso di questi termini dispregiativi sottolinea fondamentalmente un comportamento da gregge, un’adesione a un non stile, e non importa l’estrazione sociale o il livello culturale. Chi si accoda e teme di non far parte di un gruppo è sempre un truzzo, anche coloro che nel passato si sono sentiti “eletti” e hanno creduto di contraddistinguersi con un abito, un gergo, un comportamento non sono stati poi così diversi dai paninari, gabbani, tamarri ecc.. So di toccare un tabù, ma non ho difficoltà a dire che il famoso eskimo tanto in voga tra i sessantottini era una divisa indossata per differenziarsi e stabilire un confine, né più e né meno come hanno fatto, fanno e faranno tutti i ragazzi e tutte le ragazze convinti/e di non dover essere come gli altri. Anzi, l’aggravante dell’eskimo è la pretesa di sentirsi superiori e solidarizzare con le classi meno abbienti (quanti figli di papà l’hanno indossato e poi dismesso diventando più ricchi, più cialtroni, più borghesi dei padri che contestavano?). Chi risponde alla divisa altrui con un’altra divisa è un truzzo in psychologicis.

   Per conoscere queste e altre parole, consiglio la consultazione di un sito interessantissimo: Brutta storia – Manuale di lingua e mitologia urbana http://www.bruttastoria.it/.

© Marco Vignolo Gargini



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