Tunisia: la verità sul numero dei “martiri” e i veri colpevoli
Karim Zmerli, Tunisie Secret, 10 aprile 2013
Prima di aprire la questione esplosiva dei prigionieri politici, per caso per caso, Tunisie Secret si concentra prima sulla questione non meno esplosiva delle vittime degli scontri del dicembre 2010-gennaio 2011. Qual è il loro numero? Chi sono? In quali condizioni sono state uccise? Chi le ha uccise? C’era l’ordine di sparare sui manifestanti? Due anni dopo la sanguinosa crisi che ha cambiato radicalmente la Tunisia, l’opinione pubblica nazionale e internazionale deve porsi queste domande con il rischio di compromettere qualche dogma pseudo-rivoluzionario. Sui fatti che hanno gettato la pacifica Tunisia nel sangue degli innocenti, nella confusione e nell’anarchia, mettendone il destino nelle mani degli islamisti “moderati”.
Nel febbraio del 2011, un rapporto delle Nazioni Unite stimava il numero delle vittime a 300 morti e 2800 feriti. I social network, manipolati da agenzie estere e da al-Jazeera, intossicati dalla propaganda islamista e di sinistra, indicavano la cifra dei “martiri” in 5000! In questa analisi, TS non prende in considerazione che la relazione finale della Commissione d’inchiesta sugli abusi e le violazioni (CIDV), presieduta da Taoufik Bouderbala, avvocato ed ex presidente della Lega tunisina dei diritti dell’uomo; il rapporto è stato pubblicato nell’aprile 2012. Notiamo di passaggio che molti tunisini sanno che fu Ben Ali ad ordinare la creazione della Commissione d’inchiesta, nel suo discorso del 13 gennaio 2011!
Le conclusioni della CIDV
Secondo il rapporto, il bilancio delle vittime finale è di 338 morti, tra cui 86 criminali detenuti che incendiarono le loro celle per fuggire, 14 membri della polizia e cinque soldati dell’esercito nazionale. Nessuno si chiede nulla dell’identità dei criminali che hanno ucciso 14 poliziotti e cinque soldati. Quindi, il numero esatto dei “martiri” della “rivoluzione dei gelsomini” è 233, dal momento che sia i primi (gli 86 che cercarono di evadere) e gli altri (i 19 che stavano facendo il loro dovere per mantenere l’ordine) da alcuni non sono considerati dei “martiri”. Sempre secondo il rapporto di Taoufik Bouderbala, il 60% dei decessi è avvenuto nei governatorati di Kasserine, Sidi Bouzid, Gafsa e Tunisi. Il 61% è stato ucciso dopo la cacciata di Ben Ali il 14 gennaio 2011. Al contrario, il 68% degli feriti è stato registrato tra il 17 dicembre e il 14 gennaio. Su un totale di 338 morti, tra manifestanti, criminali e poliziotti, 205 sono stati uccisi dopo il 14 gennaio, 28 nella giornata del 14 gennaio e 104 tra il 17 dicembre e il 14 gennaio. Oggettivamente parlando, fu dopo la caduta del regime che vi furono più morti per arma da fuoco che non durante le manifestazioni, come si era affermato.
Di chi è la responsabilità?
Nel febbraio 2011, un grave errore venne commesso dai protagonisti di questo caso, che sono anche tutti attualmente detenuti nel carcere di Mornaguia. Questo errore è stato lanciarsi recriminazioni reciproche, scaricando le responsabilità sperando di salvare la testa. Sarebbe preferibile che ognuno si assuma le proprie responsabilità, nel quadro delle proprie funzioni, sapendo che in un tale sistema gerarchico, la responsabilità è del capo supremo dello Stato, cioè del presidente della Repubblica. Il peggio di queste accuse reciproche, è che tutti più o meno hanno evitato l’esercito, più precisamente il generale Rashid Ammar. Il motivo è semplice: il generale traditore, cui Washington aveva anche promesso impunità in cambio del tradimento (come pure ad alcuni generali egiziani), è diventato, dopo il colpo di stato militar-musulmano-statunitense del 14 gennaio 2011, il nuovo uomo forte del regime. Quindi, a causa del suo reale e segreto potere, i vari funzionari oggi in galera hanno risparmiato Rashid Ammar. Così l’ex ministro della Difesa Ridha Grira ha accusato Ali Seriati, questi ha accusato l’ex ministro degli Interni Rafiq Belhaj Kacem, che a sua volta ha implicitamente indicato la responsabilità del suo immediato successore (12 gennaio), Ahmed Fri’a, dato che il numero delle vittime, soltanto il 12-14 gennaio, raggiunse i 43 morti. Queste accuse reciproche colpiscono tutti, beneficiando esclusivamente Rashid Ammar.
Il generale ignorato!
Come capo dell’esercito, il generale Rashid Ammar è responsabile quanto gli attuali detenuti che si rinfacciano reciprocamente le responsabilità. Col senno di poi, è anche il più responsabile di tutti. E per una buona ragione: nel dicembre 2010 i militari parteciparono attivamente alla repressione dei manifestanti assieme alle forze di polizia. È lo stesso rapporto della CIDV che l’attesta. Questo rapporto identifica specificatamente quattro ministeri co-responsabili: Interni, Difesa, Salute e Comunicazioni. Come negli eventi del gennaio 1978 (quasi 500 morti) e del gennaio 1984 (420 morti), come anche negli eventi sanguinosi di Redeyef, nel 2008, è sempre stato l’esercito a svolgere il suo “dovere nazionale” schiacciando gli insorti. Come per magia, non fu così nella rivolta del gennaio 2011! Poiché non vi era alcuna questione per definire questo evento non come crisi o moti sociali del gennaio del 2011, ma “rivoluzione dei gelsomini”, non più di presentare l’esercito non come un’istituzione al servizio dello Stato repubblicano, la cui missione è l’integrità territoriale del Paese e la sua sicurezza dai pericoli esterni ed interni, ma come l’unica istituzione schieratasi con il popolo e contro lo Stato. Vale a dire, si è schierato con l’illegalità e contro la legge. Questo mito ha avuto inizio con la menzogna del “generale salvatore”, lanciata da Bruxelles dal cyber-attivista Yassin Ayari, che ha poi ammesso di aver mentito. Questo cyber-collaborazionista, che attualmente vive in Francia dopo aver contribuito ad incendiare la Tunisia, è figlio di un vero martire, il colonnello Tahar Ayari, caduto con onore sul campo, nel maggio 2011, sotto le pallottole dei terroristi che l’effimero ministro degli Interni Farhat Rajhi volle rilasciare nel nome dei diritti umani e della “rivoluzione dei gelsomini”.
Rashid Ammar non è il salvatore del popolo, ma il suo boia principale. Non solo perché l’esercito sotto il suo comando, e non agli ordini dei civili e del tecnocrate Ridha Grira, ha partecipato alla repressione, così come la polizia, ma perché i famosi cecchini locali dipendevano dal Ministero della Difesa e non dal Ministero degli Interni, che non ha mai avuto questi cecchini, come ammette il presidente della CIDV Taoufik Bouderbala. Più grave è il caso dei misteriosi cecchini stranieri che furono i primi a uccidere dei manifestanti, avvelenando la situazione e rendendola irreversibile, secondo l’antica ricetta della CIA già testata più volte in America Latina, Africa e Iran nel 1953 e nel 2009. Ora sappiamo che tra questi famosi mercenari, che agiscono per conto della CIA e sono pagati dal Qatar, cinque furono arrestati in flagranza di reato dalla polizia nazionale e liberati da Rashid Ammar subito dopo la cacciata di Ben Ali. Tutte queste verità, Taoufik Bouderbala le ha confessate a mezza voce, senza riportarle nella relazione del CIDV, per ragioni facili da indovinare.
Legittima difesa o premeditazione?
Come Ben Ali ha detto in una intervista concessa dal suo esilio saudita, l’ex capo dello Stato non ha mai dato l’ordine di sparare proiettili veri contro i manifestanti. Non siamo obbligati a credergli, ai sensi del secondo comma della legge n° 70 del 6 agosto 1982, secondo cui è il capo dello Stato, nel caso di minacce interne o esterne, l’unico a dare ordinari ufficialmente alle forze di sicurezza, o attraverso i ministri o dirigenti direttamente responsabili dell’ordine e della sicurezza. Non siamo obbligato a crederci, ma dobbiamo farci questa domanda di buon senso: chi ha beneficiato di questi crimini? Uno Stato indebolito e in cerca di una rapida uscita dalla crisi, senza la perdita di vite che l’avrebbe subito screditato agli occhi del mondo e quadruplicato la rabbia popolare verso di esso? O interessi stranieri (Stati Uniti e Qatar) e i loro agenti locali, che cercavano di deteriorare la crisi fino al punto di non ritorno, in particolare la caduta del regime e l’inizio della “primavera araba” che, magistralmente guidata, ha devastato la Libia, l’Egitto, lo Yemen e la Siria?
Indipendentemente dalla responsabilità personale di Ben Ali, si deve rilevare quella prova che gli avvocati e politologi chiamano “violenza legittima”, monopolio legale soltanto dello Stato, che sia democratico o dittatoriale. Per illustrare questa verità, ecco un esempio sorprendente: la “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” in vigore in Europa. Si tratta più precisamente della Convenzione emendata nel Protocollo n° 14 (STCE n° 194) entrata in vigore il 1 giugno 2010, che all’articolo 2, intitolato Diritto alla vita, stabilisce che:
1. Il diritto alla vita di tutti deve essere protetto dalla legge. La morte non può essere inflitta a chiunque intenzionalmente, salvo in esecuzione di una sentenza di un tribunale ove il reato sia punibile con la pena di morte per legge.
2. La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un uso della forza assolutamente necessario: a. in difesa delle persone contro violenze illegali; b. per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; c. per punire, in conformità con la legge, una sommossa o un’insurrezione.
Così, anche in Europa, “la morte non è considerata” una violazione dei diritti umani nel caso in cui lo Stato si ritrova minacciato da “una sommossa o un’insurrezione”! Teoricamente, in Tunisia una tale eccezione che giustifica l’uso della repressione mortale non esiste in alcun testo di legge, dall’indipendenza a oggi. Un testo simile afferma che l’uso delle armi non è consentito, salvo in caso di legittima difesa. In situazione di sommossa, il testo indica invece che il ricorso alla violenza deve essere graduale. Si tratta dell’articolo 2 della legge n° 4 del 24 gennaio 1969.
Ciò di cui Taoufik Bouderbala non deve parlare
Ciò che il rapporto della CIDV non rivela è che tra i 233 manifestanti deceduti, 21 furono uccisi con le armi in pugno. Chi erano? Da dove venivano? Tutti mantengono il silenzio su di loro, solo di recente Shadly Sahli, ex alto funzionario degli Interni coinvolto negli stessi processi (n° 71191 della Corte militare di Tunisi e n° 95646 della Corte militare di Kef) con Ben Ali, Rafiq Belhaj Kacem, Ali Seriati, Jalil Boudriga, Adel Touiri, Muhammad Lamin al-Abid, Muhammad Zituni… In tribunale l’ufficiale, soprannominato la ‘Scatola Nera’, disse che tra il 17 dicembre 2010 e il 14 gennaio 2011, “terroristi mascherati e armati s’infiltrarono in Tunisia dal confine algerino e si mescolarono con i manifestanti“. Aggiunse che i terroristi “attaccarono le stazioni di polizia, rubando armi e sparando sui dimostranti, creando un clima di disordini e caos“. A suo rischio, un ex esperto di sicurezza ha chiarito che i terroristi appartenevano al movimento islamista. Sembra inoltre che dei restanti 212 “martiri”, 73 siano stati identificati come appartenenti a cellule dormienti islamiste di al-Nahda, che furono liberati da Ben Ali nel 2004-2009, o ebbero il permesso di tornare a casa nello stesso periodo. Senza slogan religiosi e senza barba, si mescolarono con i manifestanti pacifici incitando alla violenza, ai saccheggi e alle distruzione di proprietà pubbliche e private. Infine, sembra che dei 139 “martiri” restanti, molti fossero criminali comuni evasi dalla prigione con l’aiuto dell’esercito, come evidenziato da diversi documenti, tra cui i video girati da dilettanti o giornalisti televisivi europei. Quasi un centinaio di giovani ha quindi pagato con la vita per la dignità e la libertà. Solo loro meritano di essere chiamati martiri.
I nostri risultati
Alla luce di questa indagine o analisi, è chiaro che la “giustizia di transizione”, che ancora mantiene in prigione Sami Fehri, arbitrariamente e ingiustamente, e che persegue Burhan Buseiss, mentre i veri criminali sono liberi e alcuni addirittura ricoprono cariche strategiche nel governo o nella presidenza, non sia altro che fumo negli occhi, null’altro che la giustizia dei vincitori contro i vinti. E’ la giustizia dei traditori e dei mercenari degli USA e del Qatar, contro i ministri e gli alti funzionari dello Stato che hanno solo fatto il loro dovere patriottico, in una situazione di confusione totale, e che i tunisini stanno solo ora iniziando a capirne i pro e i contro. Questo chiarimento era necessario prima di affrontare, caso per caso, le vicende dei primi prigionieri politici della Repubblica islamica, creata da Qatar e Arabia Saudita con la benedizione degli Stati Uniti d’America.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora