di Giuseppe Dentice
Lo sconcerto e l’emozione per la sua morte hanno mobilitato l’intero Paese, portando immediatamente nelle principali piazze di Tunisi, Sidi Bouzid, Mezzouna, Sfax e Gafsa diverse migliaia di cittadini, studenti e lavoratori dell’Union Tunisienne Generale du Travail (Ugtt) a sfilare in corteo contro governo e contro le forze dell’ordine incapaci di garantire la sicurezza dei tunisini. A Kalaa Kebira, dove risiede la famiglia Belaid, la locale sede di Ennahda è stata presa d’assalto e incendiata da una folla inferocita. A Sousse, decine di persone hanno cercato di entrare nell’edificio del liceo privato Fayyala per incendiarlo, ma sono state respinte. Altre manifestazioni di protesta sono state segnalate a Kasserine, Hammamet e Bizerte.
Le opposizioni presenti nell’Assemblea Costituente hanno premuto per le dimissioni di tutti i loro rappresentanti, mentre sei Ministri laici del partito Congresso per la Repubblica (CpR) del Presidente Moncef Maarzouki si sono dimessi. Il Premier Hamadi Jebali, rientrato in tutta fretta da un viaggio in Francia e disdicendo anche la sua partecipazione in Egitto al forum dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI), ha condannato l’attentato definendolo “un omicidio politico” e “un atto di terrorismo volto a destabilizzare il Paese”. Inoltre Jebali, nel tentativo di calmare le acque, ha paventato la possibilità di sciogliere l’attuale governo per formare un esecutivo tecnico di unità nazionale che prepari le elezioni di giugno. La proposta, che gode del supporto dell’opposizione laica e all’interno della coalizione di governo di quella di Ettakatol, è stata tuttavia osteggiata dal suo partito, Ennahda, che per voce di Rachid Ghannouchi, storico leader della formazione, ha giustificato la scelta “come un obbligo morale verso i migliaia di cittadini che hanno votato democraticamente il movimento islamico”. Ghannouchi, inoltre, ha respinto le accuse di essere il mandante dell’omicidio e ha condannato con forza “il crimine efferato che ha colpito il politico e attivista per i diritti umani Chokri Belaid“, sottolineando come “questo omicidio ha come obiettivo quello di minare la sicurezza e la stabilità del Paese”.
In effetti, proprio in questa diversità di vedute circa lo scioglimento dell’esecutivo, possono già rivenirsi i germi dell’instabilità tunisina. L’assassinio di Belaid avviene in una fase delicata della transizione tunisina nella quale permangono contrasti tra il partito di maggioranza relativa Ennahda e i suoi alleati secolaristi Ettakatol e CpR, a cui si aggiungono e si moltiplicano i segnali di intolleranza e violenza legati alla componente salafita di Ansar Sharia. Già da tempo si parlava di crisi nel governo e solo alcuni giorni prima dell’omicidio di Belaid si profilava la possibilità di rimpasti e cambiamenti nei Ministeri a causa di una gestione di due anni senza grandi successi, con un peggioramento complessivo del quadro socio-economico e un atteggiamento di complicità nei confronti dei numerosi episodi di violenza. Lo stesso Belaid, avvocato, attivista per i diritti umani già durante gli anni della presidenza di Habib Bourguiba e una delle voci più critiche del regime benalista, criticava apertamente il governo islamico di Ennahda, contestandone lo scarso rispetto dei valori democratici e la violenza politica quali espressione di una crisi interna al partito di governo che hanno tradito la rivoluzione e che non permettono al Paese di procedere sulla strada della libertà. Da mesi Belaid denunciava la violenza dei miliziani della Lega per la protezione della rivoluzione, considerati fiancheggiatori del governo, e la connivenza di quest’ultimo con gruppi di estremisti salafiti. Il timore di Belaid era appunto che la frangia più radicale all’interno di Ennahda potesse prevalere su quella più moderata, indicando al governo la via da seguire, intaccando cioè la laicità dello Stato, riducendo i diritti civili delle donne e la libertà di opinione della stampa. Fin dalla storica elezione vincente nell’ottobre 2011, Ennahda è stato messo subito sul banco degli imputati dai vari esponenti politici, accusato di aver fomentato il clima d’odio e di tensione che già dagli ultimi mesi si respirava in Tunisia come dimostrato dai casi di attacchi contro le studentesse che non portano il velo nelle scuole e nei campus e dalle denunce della stampa libera di sempre più numerosi casi di intolleranza integralista (nel solo mese di gennaio 50 reporter tunisini hanno subito aggressioni di vario tipo). L’aumento dell’illegalità e delle violenze di matrice politica ha fatto supporre a molti una possibile deriva islamista del Paese: numerosi partiti di opposizione e sindacati hanno accusato le milizie filo-islamiche e salafite di aver organizzato disordini o attacchi contro gli oppositori o le sedi dei loro uffici e di aver portato attacchi contro i simboli del laicismo e dell’Islam più tollerante (distrutti in un anno ben 37 mausolei sufi). D’altra parte gli episodi di violenza sono figli non solo dell’immobilismo e dell’ambiguità politica, ma anche del susseguirsi degli scandali (tra cui lo “Sheraton Gate” che ha travolto il Ministro degli Esteri Rafik Abdessalam) che hanno minato la credibilità dell’esecutivo, così come dell’incapacità dell’Assemblea Costituente di redigere finalmente la nuova Costituzione, che rischia di far slittare a data imprecisata le elezioni parlamentari e presidenziali previste per giugno 2013. Di fatto all’interno di Ennahda esiste una certa spaccatura tra almeno due anime, una più moderata che guarda ad un Islam simile a quello praticato dall’Akp del Premier turco Recep Tayyp Erdoğan, mentre l’altra più radicale ha un atteggiamento di complicità nei confronti dei salafiti, forse con l’obiettivo di strumentalizzare gli estremisti e di cooptarli, che viene fortemente finanziata dalle monarchie poco liberali del Golfo (Arabia Saudita e Qatar su tutti).
All’immobilismo, alle divisioni interne e al sempre maggior distacco tra istituzioni e Paese reale si aggiunge anche una sempre più profonda crisi socio-economica: il governo e la Banca Centrale tunisina da tempo sono in trattative con il Fondo Monetario Internazionale per la concessione di un ulteriore prestito da 1,8 miliardi di dollari utile a rilanciare l’economia e a dare fiducia agli investitori esteri. Sebbene vi sia una leggera ripresa, la disoccupazione (soprattutto giovanile) è in costante aumento (oltre il 19%) ma a seconda della distribuzione geografica tale percentuale si manifesta con forti disparità. Nelle zone più depresse la disoccupazione tocca picchi vertiginosi, come a Gafsa (40%) e a Tatauiline (51%). L’arretratezza delle regioni del centro-sud ha visto crescere anche un numero incontrollato di scioperi generali e di scontri lavoratori e polizia. Già tra novembre e dicembre 2012, nelle regioni montagnose e minerarie del Siliana e del Kef vi erano stati diversi tafferugli tra forze dell’ordine e i sindacati che manifestavano contro il deterioramento delle condizioni socio-economiche e di sicurezza del Paese. Ad incrementare la crisi incide anche il crollo verticale della domanda europea che ha duramente colpito l’export nazionale – che prima della crisi dipendeva per il 75% dalle esportazioni verso l’Europa –, riducendo al contempo gli investimenti diretti esteri. Infine, le perdite derivanti da altri settori chiave quale il turismo e il comparto minerario completano il quadro desolante dell’economia tunisina.
Il rischio dunque è che il Paese possa instaurarsi un clima di instabilità simile a quello che sta vivendo oggi l’Egitto. Ma a differenza di quest’ultimo, in cui i problemi interni restano connotati come esclusivamente egiziani – vuoi anche per la persistenza di un potere militare ancora molto forte –, la Tunisia ha in sé il potenziale di ingenerare una nuova spirale di violenze dagli effetti – ancora una volta regionali – imprevedibili.
* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)