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Turchia: nazione o impero

Creato il 04 febbraio 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Turchia: nazione o impero
La marcia verso occidente

Due immagini incontrano l’occhio di qualsiasi osservatore informato sulla Turchia. La realtà contemporanea è quella di una nazione mediterranea che si estende fino al Caucaso, arrivando quasi a toccare l’Asia Centrale. La prospettiva storica rivela un vasto impero. Dei cinque principali creati dai popoli turcomanni negli ultimi mille anni in Asia Centrale (Kipcak), Transoxiana e Turkestan Orientale (Jaghatai-Timurid), Iran, India ed Anatolia, il regno ottomano è sopravvissuto quasi quanto il suo contemporaneo qajar in Persia. Si è esteso in Europa più di quanto fece il suo Stato-cugino mongolo nel Medioevo e ha cercato, anche dopo che il suo declino era iniziato, di inglobare l’Impero Romano rivendicandone la successione.

Lo Stato turco era doppio ed anche multiplo, allo stesso tempo altaico e levantino; arabo-persiano e greco-romano; balcanico e anatolico. Mutuò elementi e particolarità da molte delle nazioni che aveva annesso e riflesse la sintesi etnica del melting-pot del Mare Nostrum, pur preservando un mosaico di culture, lingue e religioni per le quali l’Islam sunnita turco, fortemente influenzato dal misticismo iraniano e selgiuchide, dalla civilizzazione della corte persiana e dalle pratiche amministrative bizantine, fornì il cemento unificante. Lo stesso nome “Istanbul” evoca quella sintesi in quanto unifica la parola persiana “Istan” (luogo, sede) con quella ellenica “polis”, come un’eco dell’antica fusione culturale che fu raggiunta in entrambe le sponde del Mar Egeo sotto l’egemonia achemenide e seleucide. Casualmente queste due parole vengono da radici “indo-europee” (sanscrito): rispettivamente Sthana e pura, entrambe relative ad insediamenti umani (fortificati).

I Turchi ottomani, a lungo martoriati dall’espansione dei popoli dell’Europa occidentale e dalla conquista russa, loro sfidanti per il trono bizantino, furono progressivamente costretti a rinunciare al proprio impero. Ataturk incarnò il rifiuto rivoluzionario e nazionalista verso la vecchia identità cosmopolita ed ibrida, parte del desiderio di divenire un paese come gli altri. Seguendo le orme dei “Giovani Turchi” del Comitato per l’Unione e Progresso (CUP) – e prima di loro, le riforme delle Tanzimat nel 1839 – nel voler modernizzare la nazione, combatté per separare i Turchi dai loro antichi sudditi e per disegnare i confini di uno Stato nazione, in seguito al Trattato di Sevres del 1920, attraverso una mappa complessa fatta di interconnessioni linguistiche ed enclavi religiose.

Il governo dei Giovani Turchi durante la Prima Guerra Mondiale sgomberò l’Anatolia orientale dagli Armeni, religiosamente e culturalmente attratti da Russia ed Iran, così come dai Cristiani Assiri, promuovendo allo stesso tempo l’espansione della popolazione curda in quella zona. I greci lasciarono in massa le coste occidentali della penisola mentre un gran numero di turchi tornò dai Balcani e dalle isole dell’Egeo. Rimasero alcuni territori contesi in Tracia e a Cipro e, nella maggior parte dei casi, i limiti fissati nel sud-est erano discutibili nella misura in cui stabilivano una divisione artificiale tra Curdi, Turchi ed Iracheni e tra Aleviti, Turchi e Siriani. Molti cittadini della nuova Repubblica Turca soffrirono per la perdita di Aleppo, Ninive e Mosul – imposta dagli Inglesi che volevano controllare l’area del Kurdistan ricca di petrolio – mentre i Siriani piangono ancora il fatto che Antiochia, un’antica metropoli centro della loro nazione fin dagli albori della storia, cadde in mano al vicino settentrionale, insieme con le aree occupate dal regno di Commagene nell’antichità e più di recente dall’effimera Repubblica di Hatay.

Solo la personalità mistica di Ataturk, quale Mosè di una nuova nazione laica prescelta, avrebbe potuto alleviare temporaneamente il dolore dell’amputazione di un sistema politico di vecchia data sotto la pressione delle potenze di occupazione straniere. Comunque, c’erano ragioni per credere che la presa di questa personalità consacrata nell’ethos del paese sarebbe scemata un giorno, lasciando il posto ad un ritrovato più antico senso d’identità. Infatti il kemalismo, in senso formale, in Turchia è sopravvissuto, rispetto al culto di Lenin in Russia, solo per 12 anni e la nazione, come i suoi vicini Iran, Iraq, Libia, Egitto e ora la Siria, si sta allontanando da quel secolarismo che dominava la regione nel secolo scorso sotto l’influenza delle potenze coloniali occidentali. Non è un caso che il governo neo-islamico, pur non avendo partecipato direttamente alla campagna per il rovesciamento del regime del Baath di Saddam Hussein, abbia svolto un ruolo attivo nel sostenere la rinascita islamista nelle ultime tre nazioni sopracitate, mentre si sviluppava vicino all’Iran.

Ataturk era un prodotto ed uno studioso dell’ideologia dominante del suo tempo; un nazionalismo secolare positivistico che, con il culto della modernità europea, aveva plasmato le riforme che svolse nel suo paese, tanto da aver portato l’occidentalizzazione anche nello stile d’abbigliamento oltre che nel progresso e nella struttura della civiltà, come anche la maggior parte dei suoi contemporanei ha fatto. Contrariamente al Pan-Turanismo espansionistico che aveva emulato, nella rivendicazione dell’egemonia continentale, i suoi contemporanei Pan-slavi, Pan-germanici e Pan-anglosassoni, il nazionalismo di Ataturk, in linea con la “Associazione per la difesa dei Anatolia e Rumelia”, cercò di delineare un’identità nazionale all’interno dei confini geografici dell’Asia Minore e di quella parte d’Europa che era l’ultimo frammento dell’impero ottomano al di là del Bosforo e incarnava l’antico collegamento con la Tracia ed i Balcani.

Al fine di raggiungere la pace e la stabilità e guarire la lunga sofferenza del “malato d’Europa”, Ataturk rinunciò alle pretese imperiali e trasse ispirazione dalla francese “Pre Carre” che era, a suo tempo, invocata in opposizione alla nozione di Sacro Romano Impero. Inoltre, prese in prestito il concetto di “jus sanguinis” dalla Germania per definire i Turchi in termini razziali, per differenziarli dai multietnici soggetti del Sultanato o dagli abitanti dell’Anatolia. Rinunciò persino al primato religioso della Turchia nel mondo musulmano, quando nel 1924 abolì il Califfato di fronte a una notevole opposizione in patria e all’estero. Possiamo immaginare un gesto simile in Italia, dove ciò implicherebbe la decisione di rinunciare alla posizione di Roma come sede del Papato e sciogliere questa istituzione del tutto?

La ricerca di radici

In alternativa al passato islamico, Kemal riprese i ricordi della civiltà pre-ellenica dell’Anatolia e dei remoti antenati turchi nella Valle dei Monti Altai – la valle leggendaria di Ergenekon – attraverso una promozione molto nazionalista dell’archeologia. Tuttavia rimane dubbio che quella ricerca piuttosto elitaria di popoli e religioni da lungo tempo scomparsi avesse un effettivo impatto sulle masse cresciute nella cultura musulmana.

Un aspetto del “rinnovamento dell’impero” è stato il tentativo di “liberare” o “purificare” la cultura e la lingua, per quanto possibile, da elementi estranei visti come i resti di un passato cosmopolita e sovranazionale. Quindi non solo l’alfabeto arabo-persiano fu soppiantato da una versione modificata di quello romano, ma molti prestiti dal persiano e dall’arabo dovettero esser sostituiti da parole arcaiche derivate ​​o riprese dalle origini etniche dell’Asia Centrale, precedenti all’iranizzazione della cultura selgiuchide, o da traslitterazioni delle lingue latine. In tal modo la nuova Turchia aveva involontariamente ricreato una situazione simile a quella di molti paesi asiatici colonizzati (come l’Indonesia, la Malesia, il Vietnam) i quali costruirono lingue nazionali composte da alfabeti mutuati dai loro governanti occidentali. Altri sistemi politici turcomanni, anche ai margini delle grandi aree geo-culturali, cambiarono i loro sistemi di scrittura per completare la propria nuova immagine. Tra quelli che hanno sostituito il cirillico con l’ alfabeto latino vengono in mente Azerbaigian e Uzbekistan, e ciò al fine di prendere le distanze dal passato zarista e sovietico.

L’essenza della civiltà ottomana era però islamica e quindi Ataturk, sia come agnostico che come modernizzatore, volle, se non eliminare, almeno limitare la religione quanto più possibile all’interno della sua nuova società. L’effetto di questa laicità rigida, derivata da un sovrano di fatto dittatoriale e che godeva dello status di icona, era prevedibile. Questa ha guidato il delinearsi di una forma di repressione religiosa o addirittura di persecuzione, nonché l’istituzione del culto di un eroe, sponsorizzato dallo Stato stesso, il “Padre dei Turchi” che non poteva essere criticato in alcun aspetto della sua azione pubblica o privata. In qualche modo le forze armate turche hanno agito sia come zelante clero di quel nuovo credo civico, sia come custodi della cultura dello Stato e delle istituzioni che Kemal aveva promulgato. Così egli divenne una figura sacra onnisciente, anche se lui stesso non avrebbe approvato tale deificazione. Tuttavia, le sue riforme negarono una parte essenziale dell’anima collettiva del popolo e crearono una duratura e insidiosa crisi di identità che divenne presto manifesta anche in seguito alle misure severe applicate nei confronti sia degli ordini spirituali tradizionali, sia dei riformisti islamici come “Bediuzzaman” Said Nursi, la cui popolarità fu chiaramente temuta da Ataturk.

E’ stato osservato in un lavoro collettivo dal titolo In che stato è la Democrazia? a cura di Giorgio Agamben (tr. da W McCuaig, New York, 2011) che la democrazia necessita di una “religione civile”, che sia “un equivalente funzionale alla teocrazia” per “benedire la sua creazione politica”. Il culto di Ataturk fornì per quasi 80 anni la teocrazia in deroga alla politica della nazione e prestò legittimazione alle periodiche acquisizioni militari di potere giustificandone la necessità con il bisogno di proteggere il tessuto secolare dello Stato e preservare il lascito del fondatore. Tuttavia, quella teocrazia positivista ora ha perso il suo splendore ed è stata sostituita, almeno per una buona metà della popolazione, da un desiderio di maggiore partecipazione popolare e dalla diversità ideologica, ma anche dalla tangibile nostalgia ottomana. Il periodo post-secolare è albeggiato nella ex sede del Califfato islamico e Istanbul ricorda di essere stata la seconda (cristiana e poi islamica) Roma così come Mosca ricorda di esser stata la terza. Il partito attualmente al potere, il Partito Giustizia e Sviluppo (AKP in turco) ha sfruttato quella fonte presente nella psiche nazionale.

Come ci si poteva aspettare di un sistema organizzato in tempi rapidi e su base personalistica, sostanzialmente contemporaneo con il fascismo europeo e con il socialismo sovietico – che si basano su concetti nettamente occidentali dell’uomo e della società, benchè Ataturk, acutamente, disapprovasse entrambi e cercasse di muoversi verso la democrazia multi-partitica – il kemalismo aveva radici poco profonde e fu più popolare nella classe media, più urbana che rurale. Quanti erano stati esclusi dalla modernizzazione socio-politica o economica, lasciati indietro, rimasero sostanzialmente fedeli al loro credo islamico tradizionale, ad eccezione di una minoranza che aderì ai movimenti di sinistra. Il governo cercò di reprimere questi ultimi molto duramente, portando avanti le posizioni sempre più filo-occidentali (inclinate cioè verso Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti) del padre della Repubblica dal 1937 in poi, in parte orientate verso l’uscita dal conservatorismo economico e in parte anche dalla paura del tentacolare vicino sovietico.

I Turchi non hanno mai dimenticato che la Russia, con la sua ambizione ancestrale per ottenere Costantinopoli, era stata per tre secoli la più grande minaccia alla loro sopravvivenza politica in seguito all’eclissi del Sacro Impero germanico e, dopo aver chiesto il sostegno di Francia e Inghilterra prima e Germania poi nel XIX secolo, a poco a poco si spostarono nel campo euro-americano successivamente alla Seconda Guerra Mondiale, cioè quando non si trovarono più costretti a dover scegliere tra l’Alleanza atlantica e le sconfitte Potenze centrali, che era state loro partner sin dalla fine dell’Ottocento.

Nella sua lotta contro gli occupanti occidentali (Francesi, Inglesi, Italiani, Greci et al.), Mustafa Kemal aveva chiesto e ottenuto un aiuto sostanziale da parte del governo bolscevico, il quale sostenne la guerra di liberazione dei Turchi. Tuttavia, nel tentativo di mantenere relazioni equilibrate con l’Unione Sovietica, il primo presidente turco divenne sempre più cauto nei confronti del Comunismo, evolvendosi verso una forma di neutralità amichevole con le potenze anglosassoni e liberalizzando, allo stesso tempo, la sua politica economica precedente, pragmaticamente statalista.

I concreti tentativi di Ataturk per forgiare un blocco regionale neutrale con i vicini del suo paese non diedero risultati duraturi a causa delle circostanze geopolitiche dell’epoca. La Federazione balcanica non sopravvisse all’inizio della Seconda Guerra Mondiale e il Trattato di Saadabad del 1939, firmato tra la Turchia, l’Iraq, l’Iran e l’Afghanistan, poi riemerse come CENTO, un patto militare filo-occidentale nell’orbita della NATO, che non era però ciò che il suo defunto padrino aveva inteso.

Post-secolarismo e Neo-ottomanesimo

E’ risaputo che sin dagli anni settanta c’è stata una persistente e lungamente repressa speranza in un’alternativa a quel Kemalismo cementificato che il Partito Repubblicano del Popolo di Ataturk era arrivato a rappresentare, soprattutto per la sua ostilità verso la religione e per la tutela dei privilegi di una oligarchia politica, accennata vagamente come “Stato profondo” (smascherata dallo “scandalo Susurluk” del 1996), strettamente legata ai militari, in particolare al potente servizio di intelligence nazionale o MIT. Il partito Refah (benessere), una reincarnazione dell’ostracizzato blocco politico islamico, giunse a rappresentare proprio quell’alternativa, definita nel manifesto del suo leader Necmettin Erbakan Milli Gorun del 1969, ma sarebbe riuscita a salire al potere solo nel 1996 e dovette comunque rinunciare l’anno successivo di fronte all’opposizione dell’esercito. Tuttavia, la situazione cambiò a partire dai primi anni ottanta quando, in seguito alla rivoluzione iraniana, l’Islam politico si riaffermò dall’Afghanistan all’Africa occidentale così che il Refah non rimase più nell’isolamento, sebbene avrebbe poi dovuto cambiare il suo nome dopo essere stato bandito nel 1998.

Nel 2003 l’erede e rivale di Erbakan, il carismatico anche se un po’ cupo sindaco di Istanbul, Recep Tayyip Erdogan e il suo secondo in comando Abdullah Gul, hanno portato al potere l’AKP, una scheggia di quel movimento fino ad allora represso che rappresentava le convinzioni sociali ed economiche di gran parte della popolazione. Questa volta l’esercito non avrebbe potuto organizzare un colpo di stato, anche se cercò di rovesciare il governo dell’AKP con l’abortita Operazione Sledgehammer.

L’ascesa dell’AKP, sostenuto dalle conservatrici monarchie arabe del Golfo, è coincisa con l’avvento delle politiche post-laiche in molte parti del mondo, dall’islamismo in Medio Oriente alla neo-ortodossa russa, al neo-Confucianesimo e buddismo in Cina, per non parlare del nuovo cristianesimo repubblicano fondamentalista negli Stati Uniti. Il suo programma è stato quello di riconoscere il ruolo centrale della religione musulmana nella cultura e nella politica, associata con la regola kemalista, liberalizzando al contempo l’economia e riducendo i meccanismi di controllo dello Stato su di essa.

Non c’è dubbio che la Turchia sia oggi governato da un’ideologia neo-ottomana, in parte ispirata dalla bête noire di Ataturk, Said Nursi e, in particolare, dalla sua visione economica liberale e scientificamente orientata dell’Islam. Tale nuova tendenza offre un’alternativa al desiderio frustrato di entrare nell’Unione Europea, che è stato anche il progetto principale dei regimi precedenti e rimane nominalmente all’ordine del giorno del governo. La sensazione umiliante di rifiuto è lenita dall’assunzione di un ruolo di leadership nel mondo islamico, tanto più che i primi tentativi di prendere una pole position nella fase post-sovietica dell’Asia centrale hanno avuto risultati contrastanti a causa dell’opposizione russa, della concorrenza iraniana e araba, dell’influenza cinese e della sensibilità facilmente irritabile di alcuni leader nazionali che temono le ambizioni egemoniche risorte di Ankara.

Dall’inizio della primavera araba, il ruolo della Turchia è diventato estremamente attivo e visibile in tutto il Mediterraneo e nell’Asia occidentale sotto l’impulso fornito dell’ambizioso e dal forte temperamento Davutoglu, il ministro degli Esteri, che non fa mistero del suo desiderio di portare molti Stati arabi e musulmani sotto la sfera di influenza del proprio paese. Obiettivi particolari sono stati Egitto, Libia, Libano, lo Stato palestinese, l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan e la Siria. In molti di questi paesi Ankara ha alternativamente collaborato o corso contro gli Stati Uniti, le principali potenze europee, l’Iran, la Russia e perfino l’Arabia Saudita, fornendo un supporto strategico, aiuti finanziari, sostegno politico e offrendo il proprio marchio di democrazia con un tocco islamico come un modello da seguire.

Un braccio lungo e abile del soft power turco è stata l’organizzazione globale gestita da Fethullah Gulen, che si ritien essere vicina all’Akp anche se a volte esprime opinioni che differiscono dalla politica del governo. Il movimento di Nurcus Gulen trae la sua ispirazione da Nursi e ha ereditato la opposizione al kemalismo ed al governo militare, così come il convinto nazionalismo ostile al comunismo, al materialismo ed all’ateismo. Tuttavia questo marchio dell’Islam “ anatolico”, che acclama Mevlana Jelal ed Din Rumi, il grande mistico persiano, come uno dei suoi santi patroni insieme alle stelle polari dell’ordine dei Bektashi, Haji Bektas e Yunus Emre, non sembra essere abbastanza accettabile per le popolazioni arabe ed è, inoltre, in contrasto con la Fratellanza Musulmana e con le tendenze wahabite e salafite che sono in crescente rafforzamento in tutto il mondo islamico.

Un’altra caratteristica della politica di Erdogan è il proseguimento della cooperazione della Turchia con il governo degli Stati Uniti, a prescindere dalla spaccatura, ora più profonda, di Ankara con l’ex alleato Israele, aggravata dalla crescente vicinanza tra lo Stato ebraico, Grecia e Cipro (nella parte greca). Washington sente la necessità di sostenere la tipologia di politica islamica turca che rimane comunque favorevole agli interessi americani, nonostante lo schiacciante parere negativo nei confronti degli Stati Uniti che prevale nella società turca. D’altra parte Erdogan e Davutoglu sanno che non potranno sperare di condurre il blocco musulmano finché non si opporranno ad Israele ed alle sue politiche espansionistiche. Ci sono state molte tensioni e scontri tra Ankara e Tel Aviv negli ultimi anni, tra cui l’aggressione israeliana del 2010 alla nave mercantile turca, Mavi Marmara, in acque internazionali durante una missione di umanitaria a Gaza, sponsorizzata da una fondazione di pubblica utilità vicina all’AKP. Tuttavia, al di là del risentimento emotivo, certamente un calcolo razionale degli imperativi diplomatici e strategici ha motivato il governo dell’AKP a prendere le distanze dallo Stato ebraico che è visto, all’interno ed al di là della regione, come un residuo militarista dell’occupazione coloniale europea e come un oppressore dei suoi vicini arabi.

Si deve aggiungere che la decapitazione, posta in essere da Erdogan, delle ambigue forze ultra-nazionaliste e anti-islamiche di estrema destra, strettamente legate con i vertici delle Forze Armate, ha preoccupato il governo degli Stati Uniti, suo patrono e pagatore ufficiale da molto tempo, e ha indebolito l’un tempo potente esercito. L’ ideale professato da Davutoglu di “zero problemi con tutti i paesi vicini” rimanda al motto di Ataturk “pace in patria e pace all’estero” ma è dolorosamente fallito, date le equazioni sempre più problematiche tra Ankara e quasi tutti i capoluoghi circostanti. La Turchia non è stata, inoltre, in grado di superare le vecchie perplessità che spesso l’hanno portata ai ferri corti con la Grecia, nonostante gli sforzi personali di Ataturk, in gran parte riusciti, per costruire una rete di rapporti cordiali con quella nazione ex affluente.

Un’aggrovigliata equazione nazionale

Nessuno Stato, a meno che non si tratti di un’isola relativamente piccola, riesce ad essere così omogeneo come la teoria politica del nazionalismo tradizionale vorrebbe. In quanto incrocio tra continenti e popoli, la Turchia è un caso eminente di comunità politica in cui si sovrappongono tutti i vicini, dai Balcani al Caucaso e dalle isole dell’Egeo al deserto siriano. Questa situazione è una fonte di forza da un lato, ma anche di vulnerabilità dall’altro. Un governo che controlla l’Asia Minore può rendere la sopravvivenza economica della Grecia molto difficile per mezzo della geografia ed ha le capacità di prendere il controllo indiretto delle aree di Siria e Mesopotamia le cui popolazioni dipendono, per la loro sopravvivenza come Stati, da Tigri ed Eufrate, entrambi originati in terra turca.

La popolazione relativamente densa della Turchia le dà un enorme vantaggio strategico rispetto ai vicini più piccoli. Oltre alla Russia, al di là del Mar Nero, solo l’Iran, che ha una quota di curdi e di popolazioni turche (azere), può competere con lo Stato successore della Sublime Porta in termini di dimensioni e di potenza militare e lo supera in termini di forza economica grazie alle sue immense riserve di combustibili fossili. Per la sua energia, la Turchia è infatti dipendente dalla Russia (con cui Ankara ha negoziato un accordo sullo sviluppo dell’energia nucleare da 25 miliardi di dollari ed anche il passaggio del gasdotto South Stream), dall’Iran e dall’Iraq, mentre per mantenere la pace interna, dipende dal raggiungimento dell’approvazione oppure dall’ottenimento di un buon controllo sulle sue minoranze curda, alevita e araba.

Il tentativo di riaffermare la propria egemonia secolare sulla Siria e l’Iraq è allettante, ma pieno di pericoli per la stabilità dello Stato turco che può essere dilaniato dalla guerra civile se tali minoranze etniche e religiose dovessero rifiutarsi di accettare il controllo di Ankara. Lo Stato kemalista non è mai riuscito a controllare completamente l’organizzazione secessionista curda, che ha le sue radici nella rivolta di Sheikh Said del 1924, ed anche il governo AKP non è stato in grado di risolvere il problema. Al contrario, la politica della Turchia di palese sostegno al rovesciamento del regime baathista in Siria e di sua sostituzione con uno pro-turco e sunnita ha già indotto una riaffermazione della militanza del PKK curdo, con i curdi siriani che dichiarano un’indipendenza virtuale, unendo le forze con i loro cugini oltre il confine, i quali godono inoltre della simpatia e del sostegno della regione autonoma curda dell’Iraq, istituita sotto il patrocinio e la protezione degli Stati Uniti e di Israele, con sgomento di Ankara.

E ancora, il governo dei Fratelli Musulmani in Egitto non sembra disposto a concedere alcuna preminenza alla Turchia negli affari regionali e il tentativo evidente di Erdogan di acquisire, durante la rivolta sostenuta dalla NATO contro il regime del colonnello Gheddafi, un’influenza determinante sulla Libia ed in particolare sulla provincia orientale della Cirenaica, ricca di energia, è stato in parte distrutto dal caos che ne è derivato e dall’affermazione di guerriglieri estremisti e milizie tribali, le quali hanno affinità con altri Stati arabi.

Dal Marocco all’Oman, le monarchie musulmane sono naturalmente a disagio con la forma repubblicana di governo della Turchia, che vedono come un cattivo esempio per le proprie popolazioni e conservano, inoltre, ricordi spiacevoli legati alla supremazia ottomana. Come altri paesi con una storia imperiale – pensiamo alla Cina, alla Russia, alla Germania ed al Brasile – la Turchia ha incontrato delle difficoltà per dissipare i sospetti dei piccoli Stati confinanti, i quali temono di ricadere sotto il suo dominio diretto o indiretto.

Potrebbe esserci una “Conjuctio Oppositorum”?

Lo Stato guidato dall’RPP è stato sostenuto, all’interno dell’esercito e della società, da potenti forze “ultra-secolari” che sembrano aver dato origine, in seguito, all’organizzazione segreta Ergenekon, talvolta collegata con la Counter-Guerilla, una rete para-militare sostenuta dalla CIA, sotto l’ombrello di Gladio, un organismo antisovietico istituito dopo la Seconda Guerra Mondiale da Washington in tutta l’Europa per evitare una presa di controllo da parte del Comunismo. La fonte ed àncora dell’ideologia kemalista era l’elite Donmeh composta da ebrei sefarditi di origine ispanica che si erano fittiziamente convertiti all’Islam, ma di fatto fedeli nel profondo del cuore al messia eretico del diciassettesimo secolo Sabbatai Zevi, anch’egli convertito all’Islam sotto la pressione della Sublime Porte. Il segreto, ricco ed endogamico Donmeh, la cui roccaforte era la città natale di Kemal, Salonicco, ha svolto un ruolo decisivo nell’emergere del movimento dei “Giovani Turchi” e tre di loro, Enver, Talaat e Essad Pasha salirono al vertice del CUP ed esercitarono il potere durante gli anni finali del Sultanato.

Quella fazione progressista e occidentalizzante era strettamente connessa con la Massoneria turca ed internazionale. I Donmeh sono stati cooptati da Ataturk (si diceva che egli fosse uno di loro, anche se non lo si è mai stabilito con certezza) nella sua lotta contro i sostenitori aristocratici e religiosi del vecchio regime imperiale ed egli si circondò di diversi di loro, tra cui almeno uno dei suoi primi ministri, Tevfik Rustu Arak. Tuttavia, quell’oligarchia filo-britannica e filo-americana, duramente laica, è stata progressivamente compromessa dalla reazione islamista popolare sotto l’egida del AKP, supportato dai “petrodollari verdi” delle monarchie del Golfo. Come conseguenza del taglio delle Forze Armate attuato da Erdogan e del sorgere di nuovi plutocrati d’affari musulmani tra i devoti facenti parte delle classi medie delle piccole città dell’Anatolia, il kemalista “Stato profondo” ha perso un po’ della sua forza e la sua ideologia si è vista sempre più screditata a causa delle numerose prove di corruzione, clientelismo e servilismo agli interessi occidentali.

Che cosa riserva adesso il futuro per la Turchia? L’AKP sta lavorando per rendere la sua presa sul potere permanente, facendo in modo che i cambiamenti socio-economici e politici che ha apportato diventino irreversibili. Riuscirebbe questo a tener testa ad un aumento delle tensioni ed alle divisioni interne a questa nazione complessa ( denominata “swing state” in un recente rapporto strategico degli Stati Uniti), che è, se vogliamo usare questo cliché, un palinsesto di diecimila anni di civiltà, conservando le fonti di entrambe le lingue indo-europee e semitiche, che comprendono al loro interno una matrice uralo-altaica?

Sebbene sarebbe irrealistico aspettarsi una ricreazione del Regno ottomano, non sembrerebbe esserci un’alternativa più attraente del graduale sviluppo di una confederazione internazionale nel Mediterraneo orientale, come desiderato da Ataturk, che raccolga in un quadro neo-bizantino molti degli Stati che condividono questo patrimonio comune. Tuttavia nessuno sa se una tale visione “cattolica” possa, nella nostra epoca post-secolare, venire in essere nonostante antichi rancori tra gli Stati regionali e inimicizie tra le religioni monoteiste che dominano nella zona. I legami economici tra la Russia, la Turchia e gli Stati di tutto il Mar Nero si moltiplicano velocemente e potrebbe costituirsi la trama di un nuovo, multi-religioso spazio per il dialogo tra civiltà e per la cooperazione. I greci porfirogeneti, i sultani osmanli ed il “Padre dei Turchi” potrebbero quindi essere riconciliati attraverso una sintesi delle loro rispettive eredità politiche e culturali.

(Traduzione dall’inglese di Giulia Petrocelli)


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