di Giuseppe Mancini
Diplomatici espulsi, ricorsi in giustizia, parole di fuoco. La crisi nei rapporti tra gli ex partner strategici Israele e Turchia – iniziata con la guerra di Gaza del dicembre 2008, proseguita con sgarbi e punzecchiature, esplosa definitivamente con l’eccidio della Mavi Marmara il 31 maggio 2010 – è entrata in una nuova e più problematica fase: il rapporto della “commissione Palmer” sui fatti a largo di Gaza è stato reso noto nei giorni scorsi prima dal New York Times e poi dal Segretario generale dell’Onu, le scuse di Tel Aviv pretese da Ankara non sono nel frattempo arrivate, il ministro degli esteri turco Davutoğlu ha presentato venerdì un “piano B” che prevede il declassamento – ma non la rottura completa – dei rapporti diplomatici, il congelamento di quel che rimane degli accordi militari, iniziative presso i tribunali internazionali, non meglio specificate misure per assicurare la libertà di navigazione nel Mediterraneo orientale. In più, è stata fatta trapelare la notizia dell’imminente visita – già la prossima settimana – del premier Erdoğan in Egitto: per siglare uno storico accordo di partnership strategica, per dare forse corso al suo annunciato progetto di recarsi a Gaza e testimoniare il sostegno del popolo e del governo turco ai palestinesi. Per Israele, sarebbe un guanto di sfida: e non manca chi spingerebbe per raccoglierlo.
In effetti, la posizione della Turchia – in un anno e più – non è mai mutata: e al governo Netanyahu sono state ripetutamente richieste scuse ufficiali, congrui risarcimenti per le nove vittime e per i numerosi feriti (oltre che per i danni materiali), la fine del blocco di Gaza; in cambio, la Turchia avrebbe rinunciato a ogni possibile ricorso alle giurisdizioni internazionali e nazionali e avrebbe acconsentito al ripristino di rapporti almeno cordiali. Le parti hanno a lungo trattato, sono state più volte – come annunciato sugli organi di stampa dei due paesi – vicine a un’intesa; ma Israele si è sempre chiamata fuori in extremis: sia per difficoltà interne provocate dall’atteggiamento intransigente del ministro degli esteri Lieberman capace di far saltare la coalizione se il proprio punto di vista non avesse prevalso, sia perché molti analisti giudicano comunque irrecuperabile la partnership strategica e priva di valore – o comunque non tale da giustificare pubbliche scuse – la semplice cordialità istituzionale.
E dopotutto, il rapporto Palmer dell’Onu – pur giudicando l’impiego della forza da parte dei commandos israeliani “eccessivo e irragionevole” – sostiene la legalità del blocco di Gaza e delle misure necessarie ad imporlo: Israele ne ha accolto la pubblicazione con qualche riserva ma con sostanziale soddisfazione, il presidente turco Gül lo ha ritenuto invece “privo di valore” perché la commissione mista che lo ha preparato era priva di qualsivoglia potere giurisdizionale. Ecco la ragione per la richiesta che verrà presto inoltrata di un’advisory opinion sulla legalità del blocco – che la Turchia contesta – alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja: perché l’obiettivo strategico di Ankara è la fine dell’occupazione israeliana e la creazione di uno stato di Palestina – che appoggerà convintamente alla prossima Assemblea generale dell’Onu – come passo indispensabile verso la creazione di un Medio oriente democratico e prospero, a cui offrirsi come riferimento politico, economico e culturale.