Magazine Diario personale

Turi dell’olio

Da Lacapa

La mia vita viaggia su un binario arrugginito. E l’arrotino ci si mette per ore, su quegli ammassi di ferraglia, a olearli bene bene, perché un deragliamento non è auspicabile, mai.

Il problema è che io sono arrugginita dentro, ho gli acciacchi dell’età a ventun anni. In ufficio la prima cosa che faccio è mettermi gli occhiali, perché altrimenti quello che sta scritto sullo schermo del computer posso interpretarlo e basta, ché leggerlo non ci riesco.

E la sera vado a letto presto, mi viene sonno alle dieci, giacché so che la mattina mi devo svegliare quando per me è praticamente l’alba (le sette e mezza) per andare a lavoro, e non è come a scuola che potevo addormentarmi sul banco e al massimo la professoressa di matematica mi buttava fuori per la sua ora, credendo di farmi uno sgarbo e in realtà rendendomi una studentessa felice.

Non leggo un libro che sia uno da tipo miliardi di mesi e studio lo stesso capitolo del volume di “Storia del teatro e dello spettacolo” da luglio. Quella materia là la dovevo tentare a giugno, poi mi è capitato di dovermi organizzare per partire per gli Stati Uniti e allora ho messo le fotocopie in valigia, per sentirmi meno in colpa. Naturalmente, non le ho mai sfiorate.

A settembre, mi è capitato di dovermi organizzare per partire per Edimburgo e allora ho rimesso le fotocopie in valigia, per sentirmi meno in colpa. Naturalmente, non le ho mai sfiorate, però stavolta avevo una scusa: in Scozia avevo deciso di non avere niente a che fare con l’Italia.

Però, da quando ho cominciato a lavorare il mio armadio ha subito un netto miglioramento. La cultura è peggiorata, ma l’eleganza ha fatto il salto di qualità. Sì, perché andare in giro vestita come un carro armato (cit. Sorella) non è più una roba auspicabile, almeno non quando devi renderti vagamente presentabile per stringere mani, salutare gente, firmare fogli di carta e darti un’aria professionale.

Approfittando degli sconti, sono andata a procurarmi un paio di scarpe da femmina vera, col plateau e dieci centimetri di tacco. Décolleté come quelle delle donne in affari, grigie, eleganti, tutto il contrario dello stile da adolescente comunista che mi sono affettuosamente trascinata dietro anche se ho smesso di saltare i compiti in classe di greco per manifestare solidarietà a tutti gli operai metalmeccanici licenziati d’Italia.

Quando una post adolescente comunista indossa calzature evidentemente femminili, si verificano due effetti particolari:

1) Effetto Giusy Ferreri: è la camminata a gamba larga alla quale ci ha abituati e che ha portato perfino sul palco dell’Ariston. Ti muovi con le ginocchia valghe, pure se valghe non le hai, e stai là, tentando di mantenerti in equilibrio in maniera meno goffa possibile. Ti senti donna come Cassano, elegante come Gattuso, di classe come Totti e spontanea come Ruby intervistata da Signorini.

2) Effetto palo della luce – con aggiunta di manico di scopa su per l’intestino: se il lavoro che fai te lo consente, resti fermaimmobile per tutto il tempo che puoi, evitando di spostarti se non a passettini brevi, da geisha o, alternativamente, da eschimese in mezzo alla sabbia del deserto. La definizione della grazia insomma. Poi ti siedi, accavalli le gambe e stringi i denti: bestemmi a mezza bocca e ti dici, convinta: «Col cazzo che resto con ‘sti trampoli ai piedi, domani sneakers».

Quando la post adolescente comunista si chiama LaCapa, ai due effetti di cui sopra bisogna sommarne un altro. È una cosa rara, capita poche volte nella vita.

Ero appena scesa da Vanda, dopo un parcheggio che definire artistico è davvero poco. Avevo una gonna, collant nuovi, il cappottino rosso da bambina, il sole contro e un venticello leggero mi scompigliava i capelli.  E poi le scarpe, quella camminata ondeggiante data dai centimetri in più sotto i piedi, la sicurezza che deriva dal retaggio culturale lasciato da quell’«altezza è mezza bellezza» con cui da bambine siamo state tutte tormentate.

Con questo piglio da donna vissuta, attraversavo la strada di un centralissimo vialone di Catania, a testa alta, sorridendo. Da una corsia e dall’altra, gli automobilisti si erano fermati per lasciarmi passare, sentivo che avrei potuto conquistare il mondo, o per lo meno l’ufficio di collocamento, dove mi stavo dirigendo per ritirare dei documenti.

D’un tratto, io e la mia sfolgorante bellezza (merito esclusivo dei tacchi) giacevamo sull’asfalto. Una scarpa era rimasta incastrata in una delle buche che, a decine, decorano il manto stradale delle vie catanesi come le costellazioni decorano la Via Lattea. E io, donna di raro fascino, ero banalmente inciampata. E non ero inciampata con dignità, ero inciampata in maniera barbara, tentando di aggrapparmi all’aria per rimanere in piedi. Mi ero sfracellata al suolo strappando le calze nuove, guadagnando un ginocchio sbucciato, una gamba tinta di lividi viola e una caviglia dolorante.

Mi sono alzata velocemente, provando a darmi un contegno, con un piede scalzo e la scarpa traditrice che era rimasta là, sull’asfalto, incastrata, drammaticamente lontana. Dovevo saltellare, capite? Saltellare su una gamba soltanto, taccata per di più. Gli automobilisti ridevano, io zompettavo come un canarino ferito. Sembravo una Titti made in China, un lottatore di wrestling prestato alla ginnastica artistica.

La mia vita viaggia su un binario arrugginito, e ogni tanto deraglia, cade in mezzo al traffico, inciampa e si azzoppa. E non basta un arrotino qualsiasi, servirebbe proprio Turi dell’olio, che cominciasse dalle caviglie e andasse avanti finché un po’ di roba non inizia a ingranare per bene.


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