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Il problema di "Tusk" però è che non è mai convinto di quale sia la strada migliore da prendere: se quella ironica e dissacrante, tipica del suo autore, oppure l'altra rigida e fedele al genere, in cui a prevalere è la tensione. E in questa alternanza di intenti il primo a perdersi pare essere proprio Smith, confusionario e indeciso nel mantenere viva la scena e assai lontano dalla sua versione lucida e brillante ammirata in "Red State". Il suo infatti è un collage squilibrato e stordente diviso a metà tra commedia e horror, entrambi scarichi nei loro connotati così come noiosi e prolissi nel esporsi e nel trascinarsi. Di suspense nella sua opera non c'è alcuna traccia, nemmeno durante l'incontro della svolta narrativa dove il protagonista Justin Long fa conoscenza dell'anziano, avventuriero Michael Parks, e lo stesso vale, purtroppo, per la comicità corrosiva di cui è grande esponente, qui ricordo sbiadito di quella che conoscevamo.
Eppure la sceneggiatura di "Tusk" da l'impressione di essere figlia di una terapia personale, di uno sfogo tentato da Smith prima di "Red State" e dopo "Poliziotti Fuori", periodo nel quale il regista ha dovuto fare i conti con una scelta, rivelatasi sbagliata, di mettere il suo lavoro al servizio di una grande major, andando contro le radici e le libertà che hanno definito la sua carriera. Il protagonista Wallace, non a caso, prima di cadere nelle grinfie del suo peggior incubo, cerca di difendersi dalle accuse della sua ragazza che gli segnala un cambiamento negativo, con cui magari ha raggiunto la fama, ma perso il lato migliore di sé stesso. Quel discorso è talmente risuonante da essere riconducibile a Smith in persona, che probabilmente pensando a quella fase della sua vita, ha poca voglia di scherzare e di mostrare estro. Allestita così, troverebbe senso persino la tematica sull'essere umano e l'insensibilità e la crudeltà che lo domina, intonata dalla pellicola come un grande ritornello e rivolta, secondo chi scrive, a quel genere di signori di Hollywood a cui interessa poco la libertà di espressione e molto il botteghino.
Questa è l'unica spiegazione logica a una pellicola di cui si sarebbe fatto volentieri a meno, dove Smith nonostante torni ad essere libero nelle scelte e nelle decisioni, non esprime il né il talento, né la reattività di cui è dotato. Le battutine gratuite e pungenti, scambiate tra americani e canadesi, della risata danno solo il prurito e poco più riescono a fare un video virale trovato sul web e un Johnny Depp generoso in un cameo dove forse torna finalmente a recitare un pochino.
Ad essere buoni, quindi, a Kevin Smith converrebbe abbracciare la nostra teoria perché dall'altra, che lo vede artista scarico e in crisi, forse ne esce molto, ma molto peggio.
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