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Tutti defunti tranne i morti (P. Avati, 1977)

Creato il 07 agosto 2012 da Salcapolupo @recensionihc
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Dante trova un nuovo lavoro: vendere alcuni libri inerenti le leggende delle famiglie nobili della Romagna. Per farlo si mette in contatto con gli eredi, ed arriva così al al castello Zanotti, dove è appena spirato il marchese Ignazio. In un clima surreale viene invitato ad unirsi al tavolo dei commensali dalla stravagante figlia del defunto, Ilaria…

In breve. Parodia “all’inglese” sull’ immaginario legato ai film gialli e horror: assassini incappucciati, antichi libri, trame intricate ed ambigui personaggi vengono mescolati con i tòpos e le macchiette del cinema comico (in certi frangenti vengono in mente i siparietti alla Vieni avanti cretino, film che uscirà cinque anni dopo). Definire “Tutti defunti tranne i morti” semplicemente un “giallo” appare per questa ragione estremamente riduttivo: un vero gioiello di fine anni settanta nel quale Avati, artefice dei più macabri horror italiani mai realizzati (La casa dalle finestre che ridono, Zeder), si diverte a rimescolare le carte con credibilità, auto-ironia e stile.

Tutti defunti tranne i morti (P. Avati, 1977)

Pensare ad una versione parodica de I tre volti della paura realizzata nei tardi anni 70 sarebbe sembrata quasi un’eresìa: eppure un film come “Io zombo, tu zombi, lei zomba” (del 1979) fu un’operazione piuttosto riuscita, anche se probabilmente non apprezzata da tutti. Succede sempre così, del resto, quando qualche regista azzarda qualche variazione sul tema stravolgendo i cardini dello stesso: ma questa è spesso la ragione del loro successo e Lucio Fulci, per restare in ambito di horror italiano, lo ha dimostrato ampiamente. Avati, pur nella sua produzione più contenuta, mostra di non essere da meno – e confeziona una parodia grottesca e divertente come questo celebre film, diventato oggetto di culto negli anni successivi. L’assassino che colpisce in impermeabile scuro era diventato da anni uno stereotipo, e come spesso accade la satira trova terrreno molto fertile in queste situazioni: così il film comincia, ed inizialmente riesce a sorprendere. Quello che conta davvero, regia a parte, è la sceneggiatura (di Antonio e Pupi Avati, assieme a Gianni Cavina e Maurizio Costanzo) che segue inizialmente il ritmo e la falsariga consueta del genere (un killer che uccide senza un movente apparente), che poi si declina in modo assolutamente delirante: i personaggi “giocano” sulla scena, divagano in momenti divertenti – quando poco, quando molto – ed arricchiscono la trama di quello che sarebbe diventato, in altri modi, un giallo gotico a tutti gli effetti. Del resto la stessa figura dell’ispettore-seduttore che indaga sul caso (qui un investigatore privato) spinge le proprie consuete caratteristiche da “macchietta” fino al parossismo, risultando un perfetto incapace che risolverà la situazione solo grazie all’acume di altri presenti. Avati si serve in questa sede di alcuni attori che aveva già sfruttato per la casa dalle finestre che ridono, e si affida alla loro discreta bravura nonchè al fascino variegato delle tre donne del film (la Giorgi, la Marciano e la Vayan). Il film si lascia guardare, quindi, attraverso una serie di colpi di teatro, alcuni riusciti altri meno azzeccati (tra questi ultimi il finale stesso), che non fanno comunque sfigurare il risultato complessivo. Spassose, in questo frangente, le armi del delitto: su tutte la una pistola camuffata da fon ed un… candelotto di dinamite, neanche fossimo all’interno di un cartone animato in cui tutto è permesso, ivi compreso ribaltare gli assunti del genere o – più in generale – parodiare con intelligenza il terrore. Il tutto mantenendo un elegante senso della misura, che permette alla pellicola di fare a meno delle trovate trash e degli eccessi tipici delle parodie horror che sarebbero arrivate negli anni successivi: un lavoro di buona fattura, insomma, realizzato da uno dei maestri del terrore che con questo film, evidentemente, mostrò la propria volontà di non legarsi visceralmente ad alcun genere specifico. Cosa che, per inciso, aveva accennato anche il grande Mario Bava nel finale di uno dei sui migliori gotici, e che fa parte dell’evoluzione artistica di Avati – come le sue produzioni successive hanno dimostrato.


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