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Tutti dietro Aru

Creato il 04 settembre 2014 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Le salite hanno un carattere strano. Ai loro piedi c’è sempre un silenzio mischiato alla noia, all’attesa. Un impasto di sentimenti indefiniti che fanno pensare alle cose sempre uguali: il gruppo che arriva compatto, i campioni che si studiano, gli attacchi che latitano, il coraggio che dà il benservito. Invece non è così, gli ultimi chilometri si accendono, come se le gambe riprendessero vita grazie all’odore del traguardo, come se la fatica svanisse per un attimo davanti agli ultimi dolorosi tratti di asfalto. Per un attimo, solo per un attimo. Perché la fatica non è una cosa che si può staccare come un avversario. Ti sta sempre addosso, fino alla fine, e anche oltre, fino a sera, nelle stanze d’albergo. Bisogna fare tutto con questa compagna instancabile, anche attaccare. Una, due volte, pure cento, pur di arrivare primi.

Sulla salita finale che porta al Santuario de San Miguel de Aralar ci sono tutti i migliori: Contador, Froome, Valverde, Rodriguez. Sventolano le bandiere rosse Navarre sotto il sole cocente, tra le arsure della montagna. C’è anche un ragazzo filiforme che ha fatto sventolare altre bandiere orgogliose sulle strade d’Italia. Va su con gli occhi scuri quasi fuori dalle orbite sotto i sopraccigli altrettanto scuri. Va su con la bocca aperta e la sua pedalata che sta diventando riconoscibile tra tante. Fabio Aru, quando spinge sui pedali, affonda tutto, sbatte la bicicletta di qua e di là con foga. Come se la sua passione passasse attraverso quel gesto, proprio come se passasse tutta quanta: è tangibile. Si vede, si sente. E’ un corridore come quelli che piacciono alla gente: spontaneo, vero, uno di quelli che in bicicletta non nasconde niente. La fatica si legge negli occhi, assieme a tante altre cose. La voglia di scattare, per esempio. Perché lui è lì, assieme a quelli che vanno più forte, assieme ai migliori al mondo e il sogno di ogni ragazzo e lasciarseli dietro. Fare il vuoto. Tutti o quasi, una volta nella vita, abbiamo preso la bicicletta e, sulla salita dietro casa, abbiamo giocato a fare i campioni, a lasciarci alle spalle i nomi dei ciclisti che vincevano di più. La Vuelta però non è un gioco e uno scatto non basta.
Ancora un po’, ancora nascosto dalle ombre degli altri, e poi di nuovo via. Un’altra volta, un altro lampo azzurro e la seconda è quella giusta. Come si fa a staccare Contador dalla ruota? Come si fa a non aver paura di Valverde che piomba sempre sulla corsa all’improvviso? Forse queste cose non si domandano. Con le domande, il ciclismo, ci è poco avvezzo. E’ una cosa che parte dalle gambe: averle buone, affamate, da coraggio al resto. Fabio fa il vuoto. E nelle case si alza il volume della televisione, si urla, ci si inginocchia, un po’ come in quelle pubblicità delle birre in cui i tifosi vanno in visibilio per un goal.
Anche se gli quegli ultimi metri non sono come l’istante in cui un pallone entra in rete. Sono un godimento lento: al rumore, agli incoraggiamenti, ai gesti, si sovrappone il silenzio. Quando un ciclista arriva da solo, c’è una specie di religiosa ammirazione. Silenzio e un po’ di commozione per questo Aru che passa la linea bianca e, sullo sfondo della sua esultanza, ci sono i migliori, tutti in fila, come in una foto. Un urlo, le braccia alzate e un impresa che sembra impossibile eppure è vera come lui, come il suo modo genuino di pedalare, come le sue parole in italiano davanti alle telecamere.

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Una dedica collettiva, a tutti quelli che gli vengono in mente, il suo sorriso grande, ancor più grande nella faccia magra, plasmata dalla vita da ciclista che sogna obiettivi alti. Alti come questo. Le sue parole semplici sfilano assieme ai ragazzi che ancora stanno arrivano in cima. E’ finita l’era degli sbruffoni, dei campioni solo in bicicletta. Sono gli anni dell’umiltà, del ritorno alla bellezza autentica e grezza. Perché questo sport è nato così: semplice. Basta poco per provare a comprenderlo. Ancor meno per amarlo.

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