Guardando Tutti i santi giorni di Paolo Virzì ho realizzato quanto il regista livornese sia profondamente italiano. Usando questo aggettivo non intendo indicare un determinato stile, l’inclinazione a determinati stilemi o a particolari poetiche, personalmente ho sempre odiato i nazionalismi cinematografici (ma se ci penso bene, qualsiasi tipo di nazionalismo), e odio quando si commentano i principali festival come fossero competizioni sportive internazionali; io non mi auguro che vinca uno specifico film semplicemente perché è italiano, io tifo per il film che ritengo più meritevole, quantomeno per i miei canoni, per i miei gusti, nell’universo parallelo del cinema io non ho passaporto, ho cittadinanza presso quello che per me è il buon cinema, posso sentirmi concittadino di un autore che vive dall’altra parte del mondo ma che ha realizzato un’opera che rispecchia la mia visione del mondo e della realtà, e non lo sono del regista che magari abita nel quartiere accanto al mio ma che ha fatto un film furbo o semplicemente brutto, ma ora sto divagando; quando dico che Virzì è profondamente italiano intendo che ha una maestria non comune nel descrivere l’ethos del popolo italiano, in tutte le sue declinazioni regionali e metropolitane. Che Virzì ci sappia fare non solo con la Toscana e col toscano lo ha dimostrato con diverse pellicole successive al duemila, come My name is Tanino, Caterina va in città e Tutta la vita davanti, in queste storie i protagonisti decidono, o sono costretti dagli eventi, a “migrare”, a trovarsi in un posto che parla con un altro accento o addirittura un’altra lingua, e ciò non serve a creare gag à la noiovolevamsavuà, ma a dare corpo alla solitudine dei personaggi. “Ora mio fratello passa le giornate in via Garibaldi con i suoi amici africani, nessuno sa in che lingua si parlano, ma forse mio fratello non è mai stato malato, era semplicemente straniero”, questa battuta (trascritta a memoria quindi sicuramente imprecisa) tratta da Ovosodo, descrive meglio di qualsiasi analisi la sensibilità di Virzì sull’argomento. Anche Guido e Antonia, protagonisti de Tutti i santi giorni, non sono esenti da questo destino. Il soggetto, tratto dal romanzo La Generazione di Simone Lenzi, cosceneggiatore insieme al solito Francesco Bruni e allo stesso Virzì, è un ritratto di coppia; buona parte del film, come si evince dal trailer, è la lettura in chiave comica delle vicissitudini cliniche della coppia nel tentativo di avere un figlio, un luogo narrativo abbastanza frequentato (mi pare di ricordare, ad esempio, un episodio per la regia di Cesena con Aldo Giovanni e Giacomo e un altro episodio di un film di Giovanni Veronesi), ma lo slittamento dalla risata alla lacrima che Virzì padroneggia come se non avesse fatto altro nella vita, stacca la pellicola dal gruppone dei film da spermiogramma e lo porta vicino ai picchi della comprensione e compassione dell’animo umano raggiunti da La prima cosa bella.
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