Non un resoconto di una giornata dedicata al Social Media Marketing, con 16 incontri di 20 minuti ciascuno e tanto di gong finale. Un tentativo, invece, di scoprire cosa “va di moda” quest’anno nel mondo dei social, un po’ come fanno le riviste femminili con il radiant orchid, o le le ciabatte griffate.
Martedì 24 giugno, data cara ai torinesi in quanto consacrata al santo patrono S. Giovanni (e quindi giorno festivo), mi sono svegliata alle 6.00 am. E non per andare al mare in Liguria o in montagna a Bardonecchia come l’80% dei miei stimati concittadini, bensì per prendere il Frecciarossa direzione Milano. Mi aspettava una full immersion – dalle 9 alle 20 – nel mondo del social media marketing, per l’edizione 2014 del SMM Day, organizzato dal Sole 24 Ore.
Non vi racconterò cosa hanno detto tutti i numerosi relatori, nel corso di una serrata batteria di interventi da 20 minuti cadauno con tanto di gong per segnalare in modo inequivocabile lo scadere del tempo (fortunatamente non si è registrato alcun infarto). Non avrei il tempo, né – sinceramente – la voglia di farvi un resoconto dettagliato, anche se ho preso appunti come negli anni d’oro dell’Università, quando ancora sapevo scrivere a mano. Pagatevi il corso, la prossima volta, se volete sapere cosa si dice.
Quello che voglio fare, invece, è estrapolare dalla giornata alcuni temi ricorrenti: concetti o parole chiave che sono tornati negli interventi di diversi relatori, non a caso. Ho l’ambizione di scovare i trend, di fare quello che fanno le giornaliste di moda quando partecipano a 100 sfilate con relativo buffet e poi tornano in ufficio e decretano al mondo cose tipo: il colore dell’anno è il radiant orchid (giuro che è vero) e le ciabatte in plastica modello Zuckerberg sono il massimo del glamour (vedere foto per credere, è tratta dal sito di D di Repubblica). E quindi, eccoci qui.
MOBILE
Fonte: http://shortoutloud.wordpress.com/
Sono finiti i tempi in cui per parlare di digital si usavano le classiche immagini di shutterstock con una bella fanciulla davanti al PC. Ora sarebbe più adatto un pendolare che guarda un video sul suo smartphone mentre aspetta il treno, oppure un padre di famiglia che, iPad in mano, commenta su Twitter la partita in TV. Quindi la parola chiave è mobile, la cui crescita descrive impennate sui grafici annuali e che, tra qualche anno, supererà la fruizione da computer. Come spiega Max Galli, questo passaggio non si traduce solo in diverse dimensioni dello schermo, ma in diverse occasioni di fruizione. Insomma, davanti all’iPhone siamo diversi che davanti allo schermo gigante del Mac.
E’ un dato di fatto, ma che sia un bene non saprei. Ci ho pensato l’altra sera in pizzeria: al tavolo di fianco al mio c’erano tre persone, due uomini e una donna, sui 25-30 anni e giuro che hanno aperto la bocca solo per trangugiare la pizza. Il resto del tempo, chini sui telefoni. Oppure pensate a quello spot TIM (mi pare) con il campeggio dove tutti guardano i film sul tablet: ma allora, non era meglio la vecchia sfida a beach volley, o la classica scapoli-ammogliati à la Fantozzi?
Non che si parli di una particolare crescita oggettiva del cinguettio globale, però, in un modo o nell’altro, è questo il social network più citato in esempi, presentazioni e quant’altro. Forse è solo che, mi pare di capire, Twitter è il social media che piace ai social media marketer. Perchè è più d’elite di Facebook, perché qui c’è la gente che conta (leggi: influencer), perché è un po’ complicato (a detta dello stesso Davide Licordari) e quindi un po’ snob. E poi, per tornare al punto 1, non è forse il più mobile dei social, con la sua ansiogena rapidità (dei messaggi e del flusso degli aggiornamenti)?
Martedì, si twittava tanto e tutti. Almeno fino a quando Twitter non ha bloccato l’account ufficiale @smmday e le batterie degli smartphone si sono suicidate in massa.
Di Facebook, sempre al centro dell’attenzione, si parla soprattutto per ricordare che, ormai, è diventato un canale “a pagamento”: se non investi, scordati le performance, come ci ricorda Zorzetto di Meetic.
VIDEO
Il vero colpo di scena della giornata è l’intervento di Max Galli dell’agenzia Van Gogh, che non si limita a raccontare una case history: lancia una campagna, qui, ora. In real time davanti a una platea di social media manager affamati di novità. #mollotutto, per il rum Appleton Campari, è un mega colloquio di lavoro. Cosa si ottiene? 6 mesi in un chiringuito in Giamaica. Come ci si candida? Con un video. Come verrà presentata la campagna? Con un video.
Di video, e di colloqui di lavoro, ne abbiamo già visti, dal lavoro più bello del mondo a quello più duro (la mamma, spoilero), a “The candidate” di Heineken. Ma devo ammettere che questo progettino di Appleton è una bomba, e Max lo presenta con la maestria del pubblicitario-showman d’altri tempi.
L’intera convention viene aperta, da Andrea Albanese, con un video, Federico Smanio ci parla di marketing sportivo mostrando la versione barese di Pharrell Williams con “we’re happy se vieni allo stadio”, la società Genesys spiega il suo – non semplice – servizio di customer care integrato multicanale raccontando la storia di un ragazzo dinoccolato che non riesce a comprare i biglietti per un concerto, ovviamente in un video. Ci sono quelli d’autore e quelli UGC, quelli emozionali e quelli descrittivi, ma sempre di video si tratta.
METTERCI LA FACCIA
Ci sono espressioni che, in un certo settore, tutti usano e abusano. Alberto Albanese dice sempre “dirompente” (che a me ricorda un po’ l’”agghiacciante” di contiana memoria). Tutti dicono “engagement”, per quanto Rudy Bandiera si imponga di usare l’italico “coinvolgimento”, e così via con i neologismi che ognuno di noi usa ogni giorno per impressionare l’ignaro interlocutore e far lievitare i preventivi. Ma c’è un’altra espressione che torna e ritorna in bocca a diversi relatori, ed è un’espressione per nulla tecnica. “metterci la faccia” vuol dire parlare come persone e non come brand. E funziona: il singolo è più potente dell’azienda.
Presente i tortellini di Giovanni Rana e il tizio con il bastone di Banca Mediolanum, quella “costruita intorno a te” ? Ora qui, ovviamente, siamo più social e quindi più sofisticati, ma il concetto è sempre - loghi e + faccioni. Lo dice Albanese, che per interagire con l’azienda Twitter manda un messaggio su Linkedin al country manager. Lo dice Massobrio, che spiega ai produttori di vino che all’estero vanno in brodo di giuggiole per le storie di famiglia italiane, con tanto di piazza del paese. Lo dice Claudio Gagliardini parlando dell’autorship su Google+.
REALE-VIRTUALE
E’ il terzo dei cinque teoremi di Rudy Bandiera, la fusione tra digital life e real life, è il cuore del progetto Appleton.
Perchè c’è speranza e “di certo non cliccheremo su dei banner e dei link per sempre”.
E con questo, concludo questo post e mi stacco dallo schermo.
Se volete farmi la domanda che mi faceva mia mamma quando tornavo dalla gita scolastica, e cioè “cosa ti è piaciuto di più – e cosa di meno” del SMM day 2014 risponderò:
Mi piace:
l’effetto caffè dell’intervento di Rudy Bandiera alle 17.00. Non l’avevo mai visto live ed è un grande. Ironico, istrionico, iper-preparato.
Si, l’iper l’ho aggiunto per fare l’allitterazione.
Sì, live, sì, perché lui non interviene, si esibisce.
Non mi piace:
Le donne. Io non mi definisco una femminista, credo nella parità di genere e non nelle quote rosa. A malincuore, devo dire che gli interventi femminili sono stati in minoranza (3 su 12), e uno solo mi ha davvero convinto, quello di Adriana Defina di Genesys. Un’ottima oratrice, davvero, ma rappresentava (bene) non tanto se stessa quanto la sua azienda, usando gli (ottimi) strumenti di comunicazione aziendale. Come se noi donne, anche quando siamo brave e preparate, fossimo sempre un po’ “prime della classe”, senza quella disinvoltura che rende, ad esempio, così assertivo un Andrea Albanese o così gigione un Rudy Bandiera. La prossima volta, sul palco, voglio una donna social che spacca davvero.
Ah, continuo a fare la rompicoglioni: mi sarebbe piaciuto vedere più casi pratici. Case history. A parte quella, magistrale e in real time, di Appleton,di altro si è visto pochino. A differenza, ad esempio di quanto era successo al corso in Branded Storytelling che ho frequentato alla Scuola Holden, dove era tutto un discutere di spot che manco al bar.