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Durante le vacanze di Natale ho letto per la prima volta tutti, o quasi, i libri di Elena Ferrante. È stato un corpo a corpo con una scrittura potente e magnifica. Scrivo questa multi-recensione un po' per raccontare i suoi libri, di più per raccontare come come si sono fatti leggere. Chiunque ami la lettura sa che è un'esperienza contemporaneamente passiva e attiva, da un lato la passività consiste nella ricezione di un prodotto artistico creato indipendentemente dalla nostra fruizione, ma a questa passività del lettore rispetto all'opera scritta si accosta quell'attività che consiste nell'esperienza viva della lettura, fatta di inquietudini, gioie, ansie, repulsioni, una immensa gamma emotiva che può essere messa in moto dalla pagina scritta e che struttura il tempo che trascorriamo (desideriamo trascorrere) "dentro" al libro. Questa attività, questo coinvolgimento, trasforma la passività di chi legge rispetto alla fissità dell'opera: la rende mutevole rispetto alle reazioni che essa stessa è in grado di suscitare.
La segretezza
La scelta dell'anonimato è forse quella affrontata più volte in queste lettere. Estraggo tra gli altri un brano in cui Elena Ferrante spiega a Goffredo Fofi a quale meccanismo mediatico desidera sfuggire tenendo segreta la propria identità.
"Voglio, perciò, che il mio romanzo vada il più lontano possibile proprio perché possa dare la sua verità romanzesca [...] Ma i media, specialmente quando connettono foto dell'autore al libro, performance mediatica dello scrittore a copertina dell'opera, vanno nella direzione opposta. Aboliscono la distanza tra autore e libro, fanno in modo che l'uno si spenda a favore dell'altro, impastano il primo con i materiali del secondo e viceversa. Provo, di fronte a queste forme di intervento, esattamente quello che lei ben definisce "timidezza privata". Ho lavorato a lungo, precipitando a capofitto dentro la materia che intendevo narrare, per distillare dalle esperienze miei e di altri quanto di "pubblico" era distillabile, quanto mi pareva estraibile da voci, fatti, persone vicine e lontane, per costruire parvenze e un organismo narrativo di qualche pubblica coerenza. Ora che quell'organismo ha, nel bene e nel male, un suo equilibrio autosufficiente, perché dovrei affidarmi ai media? [...] Se si cede, almeno in teoria si accetta che l'intera persona, con tutte le sue esperienze e i suoi affetti, sia posta in vendita insieme al libro".
Si tratta dunque di una difesa dal diventare "merce" insieme al libro, ma è anche come se l'autrice - così protetta - abbia la tranquillità di lasciarsi andare nella scrittura, superare dei confini che - se la sua persona fosse esposta - non valicherebbe con altrettanta intensità.
Comunque leggo le parti de La frantumaglia che affrontano esplicitamente i due romanzi precedentemente pubblicati da Elena Ferrante con un occhio aperto e un occhio chiuso, saltando qualche frase, per non correre il rischio che il testo possa guastarmi la lettura dei due libri che oramai non sto più nella pelle di leggere. Fatico a finire La frantumaglia perché oramai ho chiaro d'avere di fronte un'autrice che sta faticando a spiegare a lettori rapiti come ha composto due romanzi che hanno inchiodato all'incanto chiunque li abbia letti. Corro in libreria a comprarli entrambi. Torno a casa con una copia dell' Amore molesto e una de I giorni dell'abbandono, le ultime disponibili nella più rifornita libreria della città, assediata di folla per gli ultimi acquisti prima di Natale.
Il corpo di sua madre
"Mia madre annegò la notte del 23 maggio, giorno del mio compleanno, nel tratto di mare di fronte alla località che chiamavano Spaccavento, a pochi chilometri da Minturno".
La storia dunque inizia da quando la madre, la bellissima Amalia, muore, e la figlia, Delia, torna alla natia Napoli per provare a dipanare il mistero della sua morte e della sua vita. Nel farlo Delia torna a ritroso alla madre, all'incontenibile sua bellezza, e da qui alla gelosia e alla violenza del padre. Parallelamente emerge come questa gelosia e questa violenza avessero contagiato tutti attorno ad Amalia: è stato connivente Filippo, il fratello di Amalia, ma anche Delia è costretta a ricordare come da bimba avesse interiorizzato quella gelosia, trasformandola in angoscia:
"Era sua fratello, l'aveva vista cento volte gonfia di schiaffi, di pugni, di calci; eppure non aveva mai mosso un dito per aiutarla. Da cinquant'anni seguitava a ribadire la sua solidarietà con il cognato, senza cedimenti. Solo da pochi anni riuscivo ad ascoltarlo senza entrare in allarme. Ma quand'ero ragazza non potevo sopportare che si schierasse a quel modo. Dopo un po' mi mettevo due dita nelle orecchie per non sentire. Forse non tolleravo che la parte più segreta di me si servisse della sua solidarietà per avvalorare un'ipotesi coltivata segretamente: che mia madre portasse inscritta nel corpo una colpevolezza naturale, indipendente dalla sua volontà e da ciò che realmente faceva, pronta ad apparire all'occorrenza in ogni gesto, in ogni sospiro".
"Le donne soffocavano tra i corpi maschili, sbuffando per quella vicinanza occasionale, fastidiosa anche se all'apparenza incolpevole. I maschi, nella ressa, si servivano delle femmine per giocare in silenzio tra sé e sé. Uno fissava una ragazza bruna con occhi ironici per vedere se abbassava lo sguardo. Uno pescava un po' di pizzo tra un bottone e l'altro di una camicietta o arpionava con lo sguardo una bretella. Altri ingannavano il tempo a spiare dal finestrino nelle auto per cogliere porzioni di gambe scoperte, il gioco dei muscoli mentre i piedi premevano freno o frizione, un gesto distratto per grattarsi l'interno della coscia [...]. Se la vettura non era affollata, Amalia lasciava sul sedile certi suoi fagotti in carta da imballaggio e mi prendeva in braccio per farmi giocare con le maniglie. Ma se la vettura era affollata, ogni godimento era precluso. Allora mi prendeva la smania di proteggere mia madre dal contatto con gli uomini, come avevo visto che faceva sempre mio padre in quella circostanza. Mi disponevo come uno scudo alle sue spalle e me ne stavo crocifissa alle gambe di lei, la fronte contro le sue natiche, le braccia protese, una mano stretta all'appoggio di ghisa del sedile di destra, l'altra a quella di sinistra".
L'amore molesto è un libro che confonde e che dà una inquietudine quasi fisica. Il viaggio di Delia per riscoprire il destino di sua madre è come un thriller, con lo sfondo di una Napoli inquietante, gonfia, minacciosa, terribilmente affollata.
Annegare a Torino
"Ma sentivo che le cose si stavano mettendo male, ne ero sempre più spaventata. Quel mio continuo stare all'erta per evitare errori o affrontare pericoli aveva finito per stancarmi al punto che a volte mi bastava pensare all'urgenza di una cosa da fare per ritenere di averla fatta davvero. Il gas, per esempio, una mia vecchia ansia. Mi convincevo di averlo spento sotto la pentola - ricordatelo, ricordatelo, devi spegnere il gas! - e invece no, avevo cucinato, apparecchiato, sparecchiato, messo le stoviglie nella lavastoviglie e la fiamma azzurra era rimasta accesa con discrezione, aveva brillato per tutta la notte come una corona di fuoco intorno al metallo del fornello, un segnale di squinterno, la trovavo al mattino quando entravo per preparare la colazione".
Se nel primo romanzo la sensazione durante la lettura è quella di una lotta contro la città, la violenza agita e subita, i parenti, i propri stessi ricordi e azioni, il secondo è più interiore: si cade con una sensazione di ansia , come di annegamento. Così alcuni piccoli accadimenti che non sarebbero gravi se fosse possibile affrontarli (la febbre del figlio, una fila di formiche che attraversa la cucina, la linea telefono disturbata, la serratura della porta di casa inceppata) sfociano nell'opacità della dimenticanza di sé e degli altri. Olga prova a tenersi vigile con un piccolo dolore fisico ma, quando vede che anche questo è inutile, chiede aiuto alla piccola Ilaria, sua figlia:
""Perché ti sei messa questa pinza sul braccio?"
Mi riscossi, vidi la pinza, me ne ero dimenticata. La piccola sofferenza che mi causava era diventata parte costitutiva della carne. Inutile, cioè. La staccai, l'abbandonai sul pavimento.
"Mi serve per ricordare. Oggi è una giornata che mi passa tutto di mente, non so come fare".
"Ti aiuto io".
"Sul serio?"
Mi sollevai, presi dalla scrivania un tagliacarte di metallo.
"Tieni questo" le dissi, "e se vedi che mi distraggo, pungimi".
La bambina prese il tagliacarte e mi guardò con attenzione.
"Come faccio a sapere se ti distrai?"
"Te ne accorgi. Una persona distratta è una persona che non sente gli odori, non sente le parole, non sente niente".
Mi mostrò il tagliacarte.
"E se non senti nemmeno questo?"
"Mi pungi finché non lo sento. Ora vieni"".
So di non essere la sola a considerare I giorni dell'abbandono il capolavoro di Elena Ferrante.
Torno in libreria di gran fretta a comprare il primo libro di quella che ho sentito dire essere la triologia di Elena Ferrante. È appena uscito il terzo libro, so le lettrici e i lettori di Elena Ferrante lo hanno atteso spasimando. Compro subito il primo e torno a casa.
L'amica geniale
L'incredibile è che sia stato pensato così in grande fin dalle prime righe, quando scopriamo che una delle due protagoniste, Lila, è scomparsa. L'amica Elena pensa subito che Lila abbia voluto scomparire, cancellando ogni traccia di sé. Al contrario non solo di chi legge ma anche dei personaggi che sono in allarme nel cercare Lila, Elena sembra considerare una situazione così insolita una scelta, precisa, radicale, possibile.
"Lila come al solito vuole esagerare, ho pensato.
Stava dilatando a dismisura il concetto di traccia. Voleva non solo sparire lei, adesso, a sessantasei anni, ma anche cancellare tutta la vita che si era lasciata alle spalle.
Mi sono sentita molto arrabbiata.
Vediamo chi la spunta questa volta, mi sono detta. Ho acceso il computer e ho cominciato a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente".
Da questa cornice in avanti inizia il lungo racconto di Elena, che si fa testimone della vita propria e di quella di Lila: sono due bambine di un rione di Napoli. Alleate, affrontano insieme le crudeltà e i rischi del quartiere ma contemporaneamente sono rivali, c'è come un flusso di energia che passa tra loro senza fluidità, incastrandosi nelle pieghe ora dell'una ora dell'altra. Elena è una bambina timida e diventa una scolara diligente, Lila invece è naturalmente vitale, forte, brillante, quando lo ritiene necessario sa diventare malvagia. Mentre a Elena è concesso di continuare gli studi, Lila è costretta contro la sua volontà a fermarsi alle elementari; si adatta a misurare la propria feroce intelligenza nel rione natio, nella botteguccia di famiglia.
Il tratto più interessante del libro è la continua perdita, conquista, confusione di identità tra le due amiche, tanto che sapendo di leggere il racconto di Elena nessun fatto appare lineare, semplicemente vero, sempre si sente la tensione per cui viene ascoltata la verità di solo una delle due, quella che è rimasta, mentre l'Altra - Lila - potrebbe vederla diversamente, interrompere, scaravoltare, mandare tutto all'aria. La loro amicizia è un rapporto di forza con lineamenti inequivocabili - Lila è la dominante, Elena l'assoggettata - ma proprio questi ruoli cristallini sono rimescolati, confusi, ritracciati continuamente. Così i fatti si impongono e contemporaneamente svaporano. Mentre Elena continua a studiare, Lila si specchierà in lei e nei suoi successi, ma sarà a sua volta invidiata per la vita densa che comunque, perfino nel girone infernale del rione, sa costruirsi lottando. Elena Ferrante fa scorrere la vita delle due bambine tra scuola, sfide all'autorità, violenze domestiche e politiche, camorra, primi amori, come se fossero altrettanti momenti di saldatura di due vite, saldatura che per compiersi deve passare continuamente per la fusione e l'abbandono, come una tela di Penelope. Elena Ferrante, in una intervista (via mail) al Corriere della Sera lo spiega così:
"Diciamo così: i moltissimi fatti della vita di Lila e Elena mostreranno come l'una tragga forza dall'altra. Ma attenzione: non solo nel senso di aiutarsi, ma anche nel senso di saccheggiarsi, rubarsi sentimento e intelligenza, levarsi reciprocamente energia".
Finisco il primo volume dell' Amica geniale la notte della vigilia di Natale. Non ci avevo pensato, che il 25 e il 26 non c'è libreria o biblioteca che sia aperta. Ho dovuto aspettare con il fiato sospeso per sapere come sarebbe proseguita la storia che alla fine del primo volume si interrompe su una scena chiave in cui sappiamo che Lila potrebbe star per fare di tutto: ribellarsi, scappare, forse perfino uccidere. Nonostante ci provi (Agus, Butler, Virginia Woolf) niente, non riesco a leggere niente altro per due giorni.
"Ho visto Lila per l'ultima volta cinque anni fa, nell'inverno del 2005. Stavamo passeggiando di buon mattino lungo lo stradone e, come oramai da anni, non riuscivamo a sentirci a nostro agio. Parlavo solo io, mi ricordo: lei canterellava, salutava gente che nemmeno rispondeva, le rare volte che mi interrompeva pronunciava solo frasi esclamative, senza un nesso evidente con ciò che dicevo. Erano successe negli anni troppe cose brutte, alcune orribili, e per ritrovare la via della confidenza avremmo dovuto dirci pensieri segreti, ma io non avevo la forza di trovare le parole e lei, che forse ce l'aveva, non ne aveva voglia, non ne vedeva l'utilità".
Dei tre finora pubblicati Storia di chi fugge e di chi resta è stato, per me, il meno potente (sono riuscita a non leggerlo per un paio di giorni, tra il 31 e Capodanno: nonostante le date, sarebbe stato inimmaginabile con i primi due). Forse, come mi confessava un'amica, c'è un intoppo troppo ingombrante nel dialogo tra le due amiche, un dialogo mancato sì realistico, ma troppo prolungato.
O forse la verità è che nonostante sia arrivata tardi a leggere Elena Ferrante, nonostante abbia iniziato quando tutti i suoi libri (credevo) erano già in libreria, nonostante questo non sono riuscita a evitarmi di dover attendere il prossimo.