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Tutto il cinema che c’è. Intervista a Boris Sollazzo

Creato il 11 giugno 2012 da Lundici @lundici_it
’èBoris Sollazzo esce dalla redazione

Boris Sollazzo esce dalla redazione

Boris sollazzo è un giovane ed ecclettico critico cinematografico. Si occupava di cinema per Liberazione (purtroppo il quotidiano è stato chiuso) e lavora tuttora per Il Gruppo Sole 24 ore, due testate sulla carta agli antipodi. È orgogliosamente direttore di The cinema show http://www.thecinemashow.it/ e vicedirettore della testata online FILMHOUSE http://www.filmhousetv.it/ che si occupa di cinema e televisione. Collabora con Ciak, Panorama, Rolling Stone, Film Tv, La Rivista del Cinematografo, Acqua e Sapone, è stato autore televisivo per il grande Antonello Piroso (e spera di esserlo ancora, molto presto). Il venerdì mattina anima e dà l’anima alla trasmissione “Il Sollazzo del Pappagallo” su Radio Rock e il sabato recensisce film per La Rosa Purpurea del Cairo su Radio24, con Franco Dassisti. Collabora con vari Festival. Lavora per la trasmissione televisiva Num3r1 in onda il martedì alle 23e25 su Rai2. Svolge ognuna di queste attività con una passione esagerata ma che non sarà mai uguale a quella che dedica al Napoli Calcio.

 

  1. Tu hai  mille attività: è impossibile vivere scrivendo solo di cinema?

Sì, è impossibile per chi abbia meno di 40 anni, tranne fortunate e talentuose eccezioni che comunque vanno oltre la scrittura: dirigono scuole o festival, producono film o documentari. La sola scrittura è sempre più marginale, come spazi d’espressione e incidenza nel proprio ambiente. Anche per colpa nostra, spesso manchiamo di coraggio e audacia, stiamo vivendo la stessa parabola discendente dei giornalisti sportivi: troppo vicini e “amici” di coloro che dovremmo criticare o comunque tenere d’occhio, troppo ansiosi di godere delle briciole del “cerchio magico” del cinema che conta.

  1. Lavori per molte testate diverse: si subiscono pressioni? Cambia il modo di scrivere a seconda del posto in cui si scrive?

Dipende cosa intendi come pressioni. Sono onesto, nessuna delle testate per cui lavoro mi ha mai fatto pressioni o “censure”. Discussioni parecchie, ma il confronto-scontro è sano, se presuppone il rispetto e la buona fede. Nelle collaborazioni in cui le pressioni o le proibizioni si sono presentate me ne sono andato sbattendo la porta, perché come giornalista ritengo la libertà il primo bene da difendere. Sembrerà retorico, ma è una verità banale e fondamentale. La libertà è un pungolo che migliora la tua scrittura e la tua capacità critica, migliora la tua scrittura e la tua analisi, ti responsabilizza e ti fa il dono della curiosità, anche quando scomoda.

apocalypse now ELICOTTERI ATTACCANO

Molti metteranno in giro la voce che tu sei "cattivo"

Le pressioni “ambientali” sono più subdole: capita raramente che una critica ti venga rinfacciata o che tu subisca “vendette” per una stroncatura. Ma ci sono altri modi per sgambettarti: il cinema ha tanti piccoli privilegi a cui tutti ambiscono, dai gadget più sfiziosi ad affascinanti visite sul set. Se li desideri, ovviamente, non è che puoi affrontare a brutto muso chi può farti entrare nel “cerchio magico” dei fortunati che partono almeno tre volte al mese. Altri, per la precarietà clamorosa del nostro mestiere, hanno legami indiretti e per loro necessari con settori produttivi e distributivi a cui certo non si può voltare le spalle al momento della scrittura. Altri ancora, magari, sono diventati amici di registi e attori. Ecco, queste pressioni sono le più difficili da affrontare ed è per questo che bisogna attraversarle con “schiena dritta”. I veri amici saranno felici delle stroncature, gli uffici stampa e i distributori più intelligenti (e ce ne sono) rispetteranno la tua imparzialità, i datori di lavoro illuminati ti permetteranno di “danneggiarli”. Magari non in Italia. Certo, poi molti metteranno in giro la voce che tu sei “cattivo” (il critico non può essere buono o perfido, ma solo attento e accurato), che sei snob o astioso. Nel mio caso non ritengo un sacrificio l’onestà: non saprei fare altrimenti questo lavoro. E se non mi fosse permesso lavorare nella massima libertà, francamente, preferirei fare altro.

Emilio Pappagallo e Boris Sollazzo su RadioRock

Emilio Pappagallo e Boris Sollazzo su RadioRock

Sulla seconda domanda posso dire che è ovvio che cambia il modo di scrivere. Il modo, la forma, ma non i contenuti. Un grande giornalista mi disse “Boris, avrai sempre molti problemi: troppo di sinistra per Il Sole, troppo di destra per Liberazione”. Aveva ragione, la mia vita di giornalista non è mai stata facile, ma quella frase trovo sia la più bella medaglia mai ricevuta in 15 anni di carriera.  La linea editoriale sullo stile di scrittura è la costrizione più bella per un giornalista: il limite, il confine da non valicare, aguzza l’ingegno e ti migliora. Ricordo sempre quanto mi siano serviti i mesi a Cioè- settimanale evidentemente non nelle mie corde- per migliorare. E quanto sono grato a Roberta Ronconi (Liberazione, non sarei mai diventato un giornalista senza di lei: mi ha cresciuto, protetto, incoraggiato per prima. Ora sapete con chi prendervela) o Stefano Biolchini (Il sole 24ore, rigoroso e generoso) o Antonello Piroso, un grandissimo. Loro mi hanno mostrato le “regole”, sono quelli che hanno anche litigato con me per farmi crescere. E come non ringraziare Aldo Fittante che mi mise in prova? Mi disse che ero un ottimo professionista ma che doveva verificare se io e Film Tv eravamo fatti per stare insieme. Aveva ragione. Si cambia tutto da una collaborazione all’altra, ma non devi cambiare te stesso. Devi essere sempre fedele a chi sei,  devi obbedire a un’onestà e lealtà al limite dell’autolesionismo. É l’essenza del nostro mestiere. Altrimenti siamo solo passacarte

  1. Che cos’è num3r1 e cosa fai tu per la trasmissione?
    rai2 num3r1: il martedì alle 23e25

    num3r1: il martedì alle 23e25 su RAI2

Vado in giro per l’Italia- spesso con l’amico e ottimo professionista Stefano De Concilio, grande operatore- per trasformare i num3r1 di Marco Cobianchi in storie che durino tra gli 8 e i 12 minuti. Qualcosa tra l’inchiesta e un on the road di studio e osservazione. Un lavoro meraviglioso e duro (in pochi giorni giro, scrivo e monto) che spero di fare a lungo. Amo uscire dal cinema, fisicamente e non: apre la mia mente e il mio bagaglio professionale. E per un critico è essenziale non chiudersi nel cinema, che è un’arte-contenitore di esperienze, sentimenti, altre discipline creative. Un catalizzatore di analisi politiche e sociali, di sguardi sul presente e visioni sul futuro. Diffidate dei cinefili ossessivi, dei superesperti “ignoranti”. Uscire dal grande schermo aiuta a rientarvi con più entusiasmo.

  1. Perché in televisione non ci sono gli eredi di Vieri Razzini o Claudio G. Fava ma a parlare di cinema c’è solo Marzullo a notte fonda? Il digitale terrestre ha migliorato il panorama?
Sergio Leone sul set di C'era una volta in America

Sergio Leone sul set di C'era una volta in America

Ora c’è anche Sarno con SuperCinema, ma la sostanza non cambia: il cinema in tv ha schemi tanto rigidi e antiquati- a differenza di Razzini e Fava in passato!- da uccidere ogni curiosità. Cinematografo è imbarazzante per quello stile insofferente di Marzullo che non sopporta più di 15 secondi di recensione, per come il conduttore ignora le anime più giovani e interessanti pur invitandole (vedi Fornasiero, ma anche Pontiggia nell’ultimo Cannes), per la totale assenze di idee autoriali. Lo schema è quello di Mezzanotte e dintorni – per le domande del conduttore- innestato in un Porta a Porta (ancora più) soporifero per la composizione del parterre. Perché succede questo? Il cinema in tv, si dice, non piace. Di sicuro viene considerato poco redditizio dai pubblicitari. A mio parere il motivo è che si è quasi sempre fatto male, chi lo racconta non lo ama. O almeno così sembra. Decenni fa, poi, si riuscivano a mettere a confronto Moretti e Monicelli e facevano scintille. Perché ora non è possibile? Il cinema è materiale vivo, modellabile, interessantissimo, ma in tv diventa bidimensionale e avvilente se si esclude l’interessante eccezione “La valigia dei sogni” e, in parte, il defunto “La 25a ora”. Guardate poi chi ci mette passione: i ragazzi di Coming Soon (su tutti Mauro Donzelli e i suoi Cinepatici), i ragazzi di Sky Martina Riva (la vera erede di Lello Bersani) e Francesco Castelnuovo, il free lance Akim Zejiari. Hanno passione, competenza, arguzia: e subito il cinema, nelle loro mani, prende vita.

Il digitale può aiutare? Dà più scelta, ma atomizza gli ascolti. E chi dirige i canali non tematici ragiona ancora in maniera generalista. Eppure gli ascolti di Rai Movie (e in generale dei canali cinematografici Rai) appena si fa qualcosa di buono o si proiettano film pensati per il palinsesto e non buttati lì ci dicono che domanda di cinema ce n’è. E anche risposta. La strada sembra lunga e tortuosa ma a mio parere basterebbe il coraggio di partire per percorrerla con successo.

5. Dagli Stati Uniti arrivano fiction di altissimo livello: adesso è lì che c’è più spazio per la creatività?

boris sollazzo america oggi. gli stati uniti di bush e la società americana

Boris Sollazzo: America oggi

 

Parliamoci chiaro, gli Stati Uniti sono sempre stati il vivaio delle rivoluzioni creative moderne. Quel paese ha un grado di idealismo- pur nutrendo anime ciniche e oscure- che gli permette di avere slanci rivoluzionari con la stessa facilità con cui sa essere reazionario (più o meno per gli stessi motivi: detto questo, per chi voglia farsi annoiare dalle mie considerazioni sociopoliticoartistiche sugli USA, c’è il mio unico libro, scritto con Alessio Aringoli: America Oggi, ed. Alegre). La New Hollywood ne è la dimostrazione più brillante, dieci anni vissuti pericolosamente, capolavori in serie di registi giovanissimi, un’industria che si affidò agli artisti. Mai più successo.

Ora i talenti si dedicano alla serialità televisiva, una formula di narrazione che aiuta e che soprattutto si evolve con straordinaria velocità e complessità (pensate a Friends, poi a 24, ora a Mad Men e Dexter: sembrano lontani 30 anni tra loro). Si, ora lì non c’è solo più spazio per la creatività ma anche per la sperimentazione e per l’innesto di forze giovani, colonne portanti della crescita di un paese. In tutti i campi.

6. Negli ultimi anni a Hollywood si producono un sacco di sequel, remake, trilogie. In Italia si fanno commedie fotocopia di ispirazione televisiva: è segno che sono finite le idee o è il pubblico che vuole cose che già conosce?

Le idee non sono finite. C’è un regista che ha appena sfornato un paio di successi (una commedia e un sequel) che ha nel cassetto una delle più belle sceneggiature che abbia mai letto. Ovviamente per ora non la produce neanche la casa di produzione che grazie a lui ha fatto soldi a palate. Un altro ha il suo esordio che è stato rimandato per anni e che è ancora “sospeso”. Bellissimo anch’esso. E ci sono film come quelli di Pacinotti (L’ultimo terrestre) che sono geniali e “diversi” ma che non hanno trovato alcun successo commerciale. Il pubblico, e lo dico senza essere snob, è stato inaridito dalle scelte industriali di un cinema che ha trascurato l’arte per spremere i filoni più redditizi, dal melodramma giovanilista alla Muccino alla commedia coral-sentimentale alla Brizzi. Un po’ come stuprare una terra con la monocultura. Una tattica antiquata e a breve termine: esattamente quella che attuano i nostri dirigenti. In America non stanno molto meglio: accorpamenti, acquisizioni, partecipazioni azionarie variegate fanno sì che ai producer e ai dirigenti amanti del cinema si sono sostituiti manager che sanno solo di numeri e percentuali. Ecco perché si cercano scelte sicure: non fanno così tutti? Guardate la musica: cover, greatest hits, reiterazione delle melodie più riconoscibili dei gruppi e dei cantanti non sono forse le strategie più usate?

 

7.    Collabori con diversi festival. Il mercato e la ricerca passano ancora da lì? O i festival sono ormai solo un’occasione che hanno i cinefili per incontrarsi e per vedere film che difficilmente sono distribuiti? Come mai i maggiori festival cinematografici italiani spendono gran parte dell’anno a litigare tra di loro?

Il mercato e la ricerca passano ancora per i festival. Dalle Giornate degli Autori passano autori spesso sconosciuti che poi trovano distribuzione, in Italia e non solo. Certo, il mercato vero si fa a Cannes, Toronto, negli Stati Uniti, un po’ a Berlino. A San Sebastian stanno investendo molto, ma i piccoli e grandi festival rimangono trampolini unici, anche per la romantica, poetica capacità che hanno di fermare il tempo e di preservare la ritualità e la sacralità del cinema, della sala, della visione per una decina di giorni. In un mondo che va a velocità supersonica e cannibalizza l’immagine e l’immaginario, è un regalo unico. Non è solo un luogo per cinefili, basta vedere il pienone che ha fatto Io sono Li di Andrea Segre alle ultime Giornate degli autori. Certo è che preferisco i festival popolari: San Sebastian, Berlino, Locarno cercano e trovano migliaia di persone “normali”, mentre Cannes e Venezia sono bolle per addetti ai lavori. Inoltre i Festival hanno anche il ruolo fondamentale di aiutare la crescita dello spettatore: La valigia dell’attore a La Maddalena- per citare un altro festival a cui collaboro- è un’occasione unica per incontrare grandi attori e analizzarne il lavoro, il talento, la formazione. Ora, peraltro, lì si tiene anche un laboratorio per giovani attori. Hanno già insegnato Toni Servillo e Paolo Rossi: confesso che le loro lezioni, di altissimo livello teorico e pratico, mi hanno emozionato. E non parlo di altri uomini di cinema che stimo molto e che dirigendo festival più o meno importanti aiutano il tessuto culturale del nostro paese.

Locarno Film Festival: Piazza Grande

Al Locarno Film Festival

Litigano solo i festival in diretta competizione. Trovo scandaloso, ad esempio, gli investimenti anche pubblici a Ischia nel festival di Vicedomini e a scapito della bellissima rassegna di Messina, il festival della location, nella stessa isola. Così come l’arroganza con cui Roma si comporta dalla sua nascita: il motivo, in questo caso, è semplice: Veltroni lo costruì a sua immagine e somiglianza e lo rese schiavo della politica. Alemanno e la Polverini, ovviamente, ne hanno approfittato. Se l’arte è subordinata al potere, lo sappiamo, al massimo può ritagliarsi il ruolo di giullare o agiografo del monarca. Perché mai Torino non dovrebbe infuriarsi con Roma? Fa un festival tre volte più bello con un sesto del budget. E ora si vede minacciato da Roma che si mette a una sola settimana di distanza dal suo inizio (sovrapponendosi, peraltro, allo storico e importante Festival dei Popoli di Firenze).

8.    Tu sei la dimostrazione che la passione per calcio e cinema sono compatibili. Come mai non si fanno (praticamente mai) film sul calcio degni di nota?

Per pigrizia. Rappresentare il calcio è difficile, è uno sport visivamente irregolare e veloce, complesso da riprendere. Il punto è che il calcio non è amato dagli americani che quindi non ne colgono la forza metaforica e simbolica, la poesia e l’epica. E non credo che il Playing the field di Gabriele Muccino, su delle soccer mom molto belle e arrapate che vogliono conquistare il mister dei loro figli (Gerard Butler), cambierà la tendenza. Qui in Italia non si è mai creduto in progetti cinecalcistici, perché si pensa di non poter prescindere dal campo da gioco. Eppure L’uomo in più di Sorrentino dimostra che se ne può parlare eccome. E anche bene. E pensate quanto sarebbe divertente, per esempio, L’allenatore nel pallone ora, in un momento in cui il calcio vive uno dei suoi momenti più tragici e grotteschi (le vicende dei vari giocatori-scommettitori sono assurde). Il calcio è poesia, almeno per chi lo vive con purezza, ma hai ragione c’è ben poco in giro: ancora oggi mi consolo con Il profeta del gol di Ciotti e da pochi anni con Maradona by Kusturica. Due capolavori sui due giocatori più carismatici e talentuosi che il calcio abbia mai avuto. Diego, ovviamente, è diverse spanne sopra chiunque altro.

9.   Su una tua ‘biografia’ si legge che per te Cavani è Edinson e non Liliana. Come si concilia il tifo per il Napoli col fatto che il presidente De Laurentiis sia il produttore ci cinepanettoni e altre pellicole del genere?

De Laurentiis, Carlo Verdone e Micaela Ramazzotti

De Lurentiis, mi' presidente,l'unico produttore che non prenda fondi pubblici e che si autosostiene.

 

Ah no, dopo tante belle domande mi cadi sul facile moralismo un po’ radical chic e attacchi De Laurentiis, l’unico produttore che non prenda fondi pubblici e che si autosostiene. E ti assicuro che non c’entra il fatto che sia il migliore presidente che il Napoli abbia mai avuto. I cinepanettoni devono esistere: Corman produceva cose ignobili ma cresceva registi straordinari (Scorsese, Demme, Bogdanovich, persino James Cameron passò dai suoi set, come addetto agli effetti speciali. E tanti altri), si dava a sesso e action- nella migliore delle ipotesi- per far arrivare negli Usa Fellini e Bergman. E in fondo De Laurentiis ci ha provato, con le debite proporzioni: tra le sue produzioni ci sono stati Monicelli e Avati, tanto per dirne un paio, e fu lui a portare in Italia l’Oscar Crash di Paul Haggis. Ovvio che la crisi del settore ha colpito anche lui e alla fine si è concentrato solo sulla scommessa sicura dei cinepanettoni. In crisi anch’essi se è vero che l’ultimo, sorprendentemente dignitoso, ha confermato la parabola discendente. Francamente trovo altri produttori ben più “pericolosi” di De Laurentiis. Quindi concilio benissimo le mie due passioni. E se anche non fosse così, ricordo a tutti che Bertinotti è milanista, nonostante Berlusconi.

10.    Potendo scegliere: vedere il Napoli alzare la Champions League o essere nominato direttore del Festival di Venezia?

Napoli: gli eroi della vittoria della coppa uefa

El Diego alza la coppa UEFA: festa grande

 

Risposta ovvia alla tua domanda un po’ “bastarda”: il Napoli che vince la Champions League è LA scelta. Però nel caso in cui dovessi trovarmi di fronte a questo dilemma, mi permetterò, rinunciando, di suggerire tre colleghi che sono sicuro sarebbero perfetti. Tutti sotto i 40, ovvio. Non ho ancora parlato della gerontocrazia? Meglio, servirebbero una dozzina di pagine. Mi limito a dire che qui in Italia il ricambio generazionale è inteso quando un ottantenne sostituisce un novantenne. Nei festival come nelle pagine nazionali di spettacolo dei quotidiani. L’Italia è un paese per vecchi, noi ce lo sogniamo uno come Olivier Pére, che ha qualche anno più di me e ha già strappato applausi dirigendo la Quinzaine di Cannes e ora sta stupendo e raccogliendo consensi- anche con scelte coraggiose- a capo del Festival di Locarno.

11.   L’ultima terribile domanda: gli 11 film da portare assolutamente sulla famosa isola deserta

Ok, mi pentirò di questa lista ogni giorno. Dovrei pensarci un mese e non basterebbe. E sono le due di notte. Quindi immagino la scena: per quale motivo uno come me dovrebbe andare su un’isola deserta? Di certo non lo farei volontariamente quindi, forse, avverrebbe a causa di un naufragio. Ora, partendo dal presupposto che sull’isola non c’è l’elettricità, potrei cavarmela non rispondendo. Diciamo che cercando nel mio baule dei dvd, in quei pochi secondi in cui devo raccogliere qualcosa  (alla I love Radio Rock) e poi cercare la salvezza, tirerei fuori Apocalypse Now, Brian di Nazareth, Eraserhead.

l'armata brancaleone

L'armata Brancaleone è nell'undici titolare

Poi Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e Diaz, La messa è finita  (anche se da ex pallanotista forse di Moretti mi ruberei pure Palombella Rossa), L’armata Brancaleone, il primo Fassbinder che mi capita sotto mano, un Truffaut qualsiasi, C’era una volta in America, Toro scatenato. Il dodicesimo me lo concedo e lo nascondo dentro una delle custodie ed è Il dottor Stranamore di Kubrick. Lo avrei preso tra i primi, ma lo conosco a memoria. Mi sento male a pensare che non ci sono almeno altri 30 registi. Però grazie per la tua domanda: ho capito che in questo naufragio morirei perché tenterei di portarmi sull’isola deserta tutto il baule.


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