BREAKING BAD
Che dire su Breaking Bad? Cominciamo dal contesto. È una stagione fortunata per la televisione e per il formato della fiction a puntate (anzi, a “stagioni”). C’è chi, nelle pagine dei giornali, ha tentato l’azzardato ma non così fuori luogo paragone con il genere letterario del romanzo. Ci sarebbe da mettere un po’ d’ordine, anche per collocare Breaking Bad al suo giusto posto, ma non è questa la sede.
Ciò che mi rimane da dire è che mi manca Walter White, adesso che ho visto tutte le puntate delle quattro stagioni sinora trasmesse. E più ancora di Walter mi manca Jesse Pinkman, il malcapitato giovane spacciatore drogatello che finisce coinvolto, sin dalla prima puntata, nella più catastrofica crisi di mezza età che sia mai stata narrata. Mi manca l’attenzione al dettaglio, la pazienza degli autori nel non voler mai, assolutamente mai abbandonare le redini della narrazione. Si entra, passo per passo, nella crisi di Walter. Non è improvvisa. Lo sembra, e invece è molto dosata. A un gesto clamoroso corrisponde un turbamento della coscienza, un ripiego, un tentativo di fuga dalla follia. E poi un altro baratro. E sembra che la battaglia non finisca mai. Ma qual è lo scopo di Walter? Dare un’opportunità di sopravvivenza alla propria famiglia, nel momento in cui il cancro ai polmoni lo porterà via? Oppure la malattia è soltanto la goccia che fa traboccare il vaso della sua pazienza, lo specchio di fronte a cui vede il riflesso ipocrita di tutta la civiltà che egli stesso ha sempre deciso di difendere, anche a costo, a volte, della sua dignità personale? Forse Walter, messo alle strette, ha imparato una dura lezione: che l’uomo è solo al mondo, che ciò che conta è il raggiungimento del proprio risultato, che la vita è innanzitutto la costruzione di una casa e la difesa di questa casa – un po’ come il giovane Dustin Hoffman si ritrova costretto a fare in Cane di paglia – prima che sia troppo tardi. Forse Walter vede l’ipocrisia dietro la sicurezza ostentata dai suoi cognati, Marie e Hank, e che aleggia all’interno del proprio focolare. Vede tutta la pochezza di queste vite al di là del loro sfoggio di cose e di atteggiamenti, e la crudeltà del mondo che lo costringe, lui, uomo di scienza, mente brillantissima, a fare il professore di chimica alle superiori e lo sguattero in un autolavaggio come secondo lavoro. Per questo la sua sfida continua. Non soltanto per l’immediato guadagno che la produzione di metanfetamine gli consente di ottenere, soldi sicuri per un futuro incerto (è davvero così? Anche ciò non è così scontato), ma anche per sfidare lo sbirro Hank, agente dell’antidroga, così sicuro di sé e della propria integrità e forza, tanto da permettersi di fare la voce grossa come e quando vuole, anche in casa d’altri (vedi: quella di Walter). La sua sfida personale contro il mondo diventa un’intricata matassa di rapporti che coinvolge i membri della sua famiglia: la bella Skyler, moglie fedele, forte, intelligente, caparbia, ma anche lei banale nella generale banalità delle persone che abitano il mondo, piccola ed egoista nei suoi desideri, nelle sue intenzioni; e suo figlio Walter Jr., un ragazzo d’oro zecchino nonostante il peso del suo handicap, innamorato del padre e della sua famiglia, cresciuto ignaro dei pericoli che abitano il mondo, fin troppo protetto e sottovalutato, nonostante la sua intelligenza e il suo coraggio.
C’è una ricerca ostinata, da parte degli autori, supportati con grande cura e grande maestria dalla regia, di scovare quell’area grigia nel quale il bene si tramuta in male e viceversa, nel quale gli atteggiamenti e le convinzioni delle persone si tramutano in debolezze e ipocrisie. Walter è una lancetta che oscilla pericolosamente da un lato all’altro senza mai trovare il proprio equilibrio, e il proprio mondo inclina pericolosamente a ogni suo cambio di umore. Assistiamo alla trasformazione del mondo di Walter in una realtà disfunzionale. La disfunzionalità stessa, tuttavia, non è una degenerazione, bensì l’effetto di un disvelamento, di qualcosa che è sempre stato là. E ancora: la stessa confusione delle situazioni trasforma continuamente rapporti, persone, punti di vista. Ogni puntata cambia la disposizione delle forze in gioco, ogni menzogna produce un’esplosione di ramificazioni di trame che poi, un po’ alla volta, si dipanano e ritornano alla fonte. Per certi versi Breaking Bad ricorda alcune opere letterarie (e torna il parallelo con il romanzo): un po’ Tristram Shandy, per le peregrinazioni e le disavventure quasi ostinate del proprio protagonista, per i rovesciamenti e i capitomboli; un po’ I promessi sposi, poiché, proprio come i due sposini manzoniani, lo stesso Walter White là dove passa crea scompiglio e accende la scintilla del cambiamento, del rovesciamento, ed è a sua volta rovesciato e costretto a far fronte, a volte, ad eventi che vanno al di là della suo controllo, come lo schianto di un aereo. Oppure no? Un po’ buddhista, questa serie si svolge partendo dalla riflessione che a ogni causa corrisponde un effetto. Un po’ protestante, la colpa è un oggetto centrale nella vita di ogni personaggio. Cos’è la responsabilità? A che punto la responsabilità si tramuta in presunzione? Breaking Bad è la storia di un mondo. Un mondo non sempre plausibile (è pur sempre fiction), ma a tutti gli effetti un universo di personaggi che si incontrano e si scontrano, ciascuno con un proprio ruolo e una propria convinzione. Da scardinare, da riformulare, rivedere, mediare a ogni giro di vite.
Cosa ne sarà di me senza Walter White? Ce la farò ad aspettare durante i mesi che mi separano dalla prossima stagione? Cosa guarderò nel frattempo? Qualcosa mi dovrò inventare. Mi auguro nel frattempo di avervi invogliato a provare a seguire le avventure del prof. White. E non lasciatevi condizionare dal riferimento costante alla chimica: questo non è House, non è Csi. La scienza non è un pretesto: al limite, forse, un discorso nel discorso. Come un esperimento chimico, le persone si incontrano, si congiungono, formano composti originali, nuovi, creano la vita. Il sottotitolo italiano, Reazioni collaterali, per quanto suoni un po’ squallido e futile, è molto azzeccato. È una buona glossa del titolo inglese: una possibile traduzione della forma gergale “to break bad”, infatti, non è altro che “sbroccare”. Più chiaro di così.
Francesco Rigoni