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Twentynine Palms

Creato il 16 aprile 2011 da Eraserhead
Twentynine PalmsA mio modo di vedere Twentynine Palms (2003) è un film che diverge da L’età inquieta (1997) e da L’umanità (1999).
Lo è prima di tutto nel luogo in cui vive perché abbandonata la provincia francese Dumont pone il suo occhio in un deserto, quello californiano, in cui non c’è nulla, almeno a prima vista. Lo è poi nelle intenzioni che si allontanano dalle indagini socio-teologiche del passato autorialmente filtrate, per approdare definitivamente nel cielo oscuro dell’essai, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporta. Lo è infine per la storia che presenta, una storia di amore adulto fra un uomo e una donna, un David e una Katia (la bellezza spettrale Yekaterina Golubeva, compagna di Sharunas Bartas al quale questo film sono sicuro sarà piaciuto molto) pellegrini nell’arida natura, nel deserto, in un Eden che deve venire o che forse è già passato.
È sintomatico il fatto che alcune delle recensioni consultabili in rete citino le parole del regista francese relative alla sua opera. Questo perché aldilà delle innumerevoli critiche apportabili a 29 Palms, il disorientamento è l’effetto principe che pervade a fine visione, e siccome il sottoscritto si è smarrito al pari dei protagonisti userò anch’io il Dumont-pensiero come bussola:
Questo è un film che è nato e si è sviluppato intorno ad una sensazione
Il film si è costruito scoprendo cose, accumulando emozioni.
Un film in cui soggetto e protagonisti non hanno importanza, quello che è importante è lo sfondo.
Nel film ho cercato di neutralizzare l’importanza di tutto (la storia, i personaggi, le psicologie) per concentrare l’attenzione sull’atmosfera.

A sentire così il film sembrerebbe soltanto un mero esercizio di stile, e in effetti sfido chiunque a dimostrare il contrario. Ma ci sono alcuni termini negli interventi qui sopra che mi danno da pensare. Se il progetto si è sviluppato partendo da una sensazione credo sia inevitabile che ne venga effettuata una riproposizione, e ciò che ho percepito, che ho sentito, non è mai stato amore, mai. Piuttosto inquietudine, malessere relazionale, Adamo ed Eva post-mela. Il film non ha davvero niente da raccontare in superficie e probabilmente neanche sotto, il deserto che segna drammaticamente l’assenza di vita è lo specchio di questa secca relazione dove i due scopano come animali, da dietro, litigano, si abbracciano, sono lontani: parlano lingue diverse.
Le sensazioni si avvertono, e non sono positive.
Eppure Dumont ci dice che David e Katia non sono importanti, non è importante chi sono e non è importante che cosa fanno. Credo che Dumont non dica la verità. Il fondale è metafora, paragone di un rapporto, senza il deserto non ci potrebbe essere questa coppia e viceversa, e quindi non esisterebbe nemmeno il film in sé. Il regista potrà spingere quanto vuole il pedale dell’astrazione ma una volta che la mdp si cala nella realtà inizia a rap-presentare, esibisce: il cinema non può essere sincero ma può mostrarci la sincerità, qui è difficile credere a questi due amanti, ed è per questo che il film non è piaciuto, ma ce li mostra in una condizione archetipale che guarda caso è anche la stessa dell’ambiente che li circonda. Archetipi sì, stereotipi anche. Lui amorevole, protettivo, maschio, guidatore (del fuoristrada e della relazione), lei lunatica, sfuggente, remissiva, arrendevole. Dietro l’immobilità registica, dietro il nulla raccontato, e oltre il racconto annullato, per forza di cose Dumont si trova comunque a raccontare qualcosa; pur stratificando emozioni, visioni, sensazioni, il cinema riconduce sempre all’imbuto della concretezza: c’è L’Uomo e c’è La Donna, viaggiano nel deserto e si avverte che prima o poi accadranno delle cose brutte.
Quindi non è solo atmosfera, quindi non c’è solo lo sfondo. Certo è complicato e faticoso capirlo, e forse proprio per questo ancora più bello.
Eggià, lo spettatore paziente che ha dato peso a quest’aria di attesa troverà nel finale il tanto aspettato momento catartico che data la stasi regnante fino a quel momento risulterà ancora più devastante.
A questo punto è utile rifarsi ancora alle parole del regista:
C’è quel finale, perché ad un certo punto bisogna finire. Lo stupro rappresenta proprio la volontà di prendere di peso i personaggi e di immergerli nella violenza, per finire.
E poi ancora:
La prima intenzione era di finire il film con la scena dello stupro. Poi ho aggiunto quel finale per fare un “omaggio”, un “pensiero”, al cinema americano, in particolare al cinema horror americano, che mi sono dovuto sorbire per tanti anni e che ancora continuano a propinarci. Quasi come uno sfottò, insomma.
Sarà, ma io continuo a non credergli e anzi porto avanti il mio pensiero che vede in questo duo il ritratto di una coppia primigenia che tra la banalità della vita (un gelato al tavolino) e quella del male (lo stupro) si distrugge, si auto-distrugge.
Avendo io la fissa di prendere appunti durante la visione di un film, rileggendoli ho notato che la maggior parte delle mie annotazioni riguardavano Katia:
-lei che ride e piange
-lei che sente i tuoni lontani
-lei che cammina scalza
-lei che accarezza i cani
Siamo in presenza di una storia femmineo-centrica? Non saprei dire, ma ciononostante quando i teppisti li aggrediscono nel nulla, appare strano che scelgano come oggetto d’attenzione il fondoschiena di David piuttosto che il corpo della ragazza. Si innesta perciò una sorta di rovesciamento dei ruoli fino a quel momento rappresentati. Tra i due il più debole non è Katia ma David e lo dimostrerà con l’irrazionale azione conclusiva. Quindi ok la sottile critica al cinema americano al quale mi accodo senza indugi, ma per chi scrive il tutto non si esaurisce qua. Il finale vede da una prospettiva artistica degli eventi che succedono nel mondo reale, e checché ne dica lo stesso Dumont lui una storia l’ha raccontata eccome.
Allora, forse, questo film non diverge poi troppo dai due precedenti perché a ben vedere Dumont delle indagini delle investigazioni e delle ispezioni non interessa granché, lui ci fa vedere la rappresentazione della realtà, e non la realtà vera e propria perché il cinema non può farlo, ed una realtà fatta di odio, amore, paura, violenza e soprattutto noia.
Siamo tutti soli in un deserto, e abbiamo paura.
Interventi presi da qui.

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