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Erano anni che volevo vedere Twentynine Palms, ed erano anni che ne sentivo parlare malissimo, come se questo non solo fosse il peggiore film di Bruno Dumont ma addirittura uno dei peggiori mai realizzati.
Così, preso tra l'incudine e il martello della curiosità e delle stroncature, ho sempre rimandato la sua visione sine die, pur sapendo che prima o poi, da dumontiano convinto e ortodosso quale io sono, mi sarebbe toccato sorbirmi le sue titaniche due ore. Ebbene, qual è il tanto atteso verdetto? Difficile stabilirlo, perché che Twentynine Palms non sia il miglior Dumont è abbastanza chiaro, ma che la sua visione sia così tremenda da scoraggiare anche il più audace spettatore, questo è di gran lunga meno comprensibile. E francamente non si riesce a giustificare (troppo) la biblica pioggia di fuoco che molta nomenklatura critica s'è augurata cadesse sulla testa del suo regista. Diciamo che se fossi un giudice chiamato ad applicare una qualche sanzione, mi limiterei giusto a una tollerante strizzata d'orecchi. Per questa volta niente bastonate, ma solo perché sei incensurato.
Allora, ci sono David e Katia (Yekaterina Golubeva e David Wissak) che attraversano il deserto per raggiungere la cittadina sperduta che dà il titolo al film. Dormono nei numerosi motel disseminati lungo l'autostrada, assaporano la cucina americana delle stazioni di servizio, chiacchierano di cose futili e si abbandonano spesso e volentieri, cioè ogni dieci minuti, ad amplessi selvaggi e piuttosto spinti. Prima lo fanno nell'acqua, poi su un'antica formazione rocciosa alle porte del deserto, poi su un letto e ancora all'aria aperta. Tra una chiavata e l'altra, ahinoi, succede poco o niente. Non c'è azione, non c'è racconto, e a parte i saltuari momenti di poesia (la scena delle pale eoliche, tanto per dirne una) si attende invano che qualcosa metta in moto gli avvenimenti.
Twentynine Palms è un viaggio metaforico nella natura primitiva e inospitale, un ritorno alle origini dell'umanità, dove i corpi si fanno sabbia, le menti si trasformano in pietra e le anime, in fuga da una modernità asfissiante e indecifrabile, diventano il vento che soffia nelle notti stellate, la polvere delle strade, il calore intrappolato nelle rocce. Il deserto sostituisce il più canonico panorama fiammingo, ma al contrario di quanto succede per L'età inquieta e L'umanità, i personaggi paiono slegati da uno sviluppo culturale e narrativo che non sia un continuo perdersi nell'ambiente, mimetizzarsi in esso, amarsi e odiarsi senza ragione apparente.
Il problema principale della pellicola non è certo la sua lentezza, quanto il voluto ed eccessivo oscurantismo che, dietro la pretesa di fare un film à la manière de Dumont, tempi dilatati, campi lunghissimi su scorci infiniti di paesaggi inospitali, finisce per sembrare una caricatura poco riuscita dei suoi fasti cinematografici. È come se avesse voluto rifare Zabriskie Point, salvo poi somigliare a Brown Bunny di Vincent Gallo (curiosamente presentato lo stesso anno a Cannes). E alla fine non si capisce da quale genitore abbia ereditato il patrimonio genetico. Twentynine Palms ruba la monumentalità antonioniana dei suoi spazi infiniti, e diventa un tripudio di giallo zafferano, corpi nudi avvinghiati su pietre gigantesche e grigiastre, cieli azzurri che si riflettono in piscine troppo grandi e troppo vuote per non apparire tremendamente fuori posto. Ma è anche un tentativo, encomiabile seppur traballante, di costruire un cinema ancor più minimale dei suoi precedenti lavori, dove gli eventi sono ridotti a pochi tocchi di colore, e dove la banalità dell'inutile si trasforma d'incanto in tragedia.
I pregi però si riducono a queste efficaci trovate visive che, proprio perché indipendenti da un corpo narrativo meglio articolato e strutturato, si concludono in se stesse senza aggiungere nulla a quanto si sforzano di rappresentare. Per esempio, gli orgasmi che si trasformano in urla di dolore, la scena del cane investito, un capolavoro di incomunicabilità di coppia, o lo stupro di David che, come un fulmine a ciel sereno, contrasta con la placida immobilità di tutto il resto. Sono guizzi di splendore, che ci colpiscono come un pugno allo stomaco, vuoi con la stranezza di cui si fanno latori, vuoi per la repentinità del loro accadimento. Ma tutto questo non basta a rendere un film mediocre un buon film, e nel complesso resta sempre l'idea di un'operazione riuscita a metà, dove si vorrebbe fare, ma senza risultati ammirevoli, dove si tenta di parlare finendo poi per starnazzare o addirittura per non dire nulla. Non solo Twentynine Palms non termina quando dovrebbe, ma si trascina per inerzia con un finale (che taciamo onde evitare spoiler) indegno per un uomo di grande cultura e raffinatezza come Dumont. Eppure non ci sarebbe voluto tanto per evitare il semi-disastro, bastava tagliare una ventina di minuti di tempi morti e cambiare (o meglio ancora, rimuovere del tutto) la brutta conclusione. Non è andata così, ed è inutile chiudere la stalla dopo che i buoi sono fuggiti. Quel che resta di questo lungometraggio, giudicandolo in ciò che è e non per come l'avremmo preferito, sono soltanto i gusci vuoti dei suoi miti di frontiera, il suo deserto più minaccioso che maestoso, i fast food hopperiani con i loro impiegati senza identità, i ventri delittuosi di motel sempre troppo ordinari.
Avrebbe potuto fare di meglio, ma almeno ci ha provato.
Marco Marchetti
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