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È un Mike Tyson inedito, quello mostrato nell’eccellente documentario “Tyson: The Movie”, diretto da James Toback. La pellicola, mai arrivata nelle sale italiane, e che all’edizione 2008 del Festival di Cannes si è aggiudicata il “Premio Knockout”, è un monologo di circa 90 minuti dell’ex-campione, corredato da immagini di alcuni suoi incontri, nonché da interviste e spezzoni di filmati, alcuni inediti, sulla sua travagliata vita.
Una meteora, quella di Tyson, passata ad una velocità fulminante sul mondo del pugilato, ma anche dello sport e della cultura popolare in generale. Campione del mondo dei pesi massimi a soli venti anni di età, campione indiscusso (unificò le cinture WBC, WBA ed IBF), oltrechè imbattuto, a ventuno, Mike Tyson era, alla fine degli anni ottanta, seduto sul trono di re del mondo.
Era partito da zero, anzi da meno di zero: ladro di appartamenti, nonché spacciatore di droga nella pericolosa sezione Brownsville di Brooklyn, a dodici anni si ritrovò già in riformatorio. Nel documentario, descrive questo periodo come “una riunione fra compagni di classe”, data la presenza, nel carcere giovanile, di molti dei suoi amici del ghetto. Senza famiglia, senza un’istruzione minima, il piccolo Mike veniva continuamente malmenato dai bulli del quartiere, che lo ridicolizzavano per le sue fattezze non certo da dodicenne (pesava già ottanta chili), oltre che per il suo pronunciato sigmatismo, molto evidente ancora oggi.
Colpisce, osservare Tyson in lacrime, con la voce rotta dall’emozione da dover addirittura interrompere il racconto, parlare del suo allenatore, nonché vero e proprio padre e mentore: Cus D’Amato. Questo vecchio maestro di pugliato, che aveva allenato futuri campioni del mondo del calibro di Floyd Patterson e Jose Torres, aveva visto nel giovane Mike qualcosa di speciale. Tyson non se lo è mai dimenticato. È curioso come un ragazzo nero proveniente dalle case popolari di Brownsville costruisca un legame così forte con un signore bianco di mezza età, che abitava in una villa stile vittoriano appena fuori New York. Ma le origini erano le stesse: “he was a street kid like me”, “era un ragazzo di strada come me”, è l’espressione che Tyson usa raccontando questo suo forte legame, l’unico vero della sua vita.
Quando Constantine “Cus” D’Amato se n’è andato, nel Novembre del 1985, Mike era ormai un pugile professionista. La sorte ha voluto che il maestro non vedesse il suo allievo diventare campione del mondo dei pesi massimi (Novembre ’86) sebbene, con incredibile lungimiranza, lo avesse predetto con largo anticipo.
Non si è mai fidato di nessuno fino in fondo, Mike Tyson. Mai di una donna, mai di un amico. Si è fidato troppo, probabilmente, del diabolico impresario del pugilato americano Don King, che quando era all’apice della carriera gli ha sottratto una cifra dall’entità mai veramente stabilita, ripagandolo successivamente con delle briciole. “He would kill his mother for a dollar”, letteralmente “ucciderebbe sua madre per un dollaro”: questo è quello che pensava Mike Tyson di Don King. Eppure, si è fatto gestire per anni dall’uomo coi capelli ritti in testa, non avendo certamente gli strumenti per valutarne l’operato, ma forse volendo anche ignorare il fatto che una persona, prima o poi, si deve occupare delle proprie finanze, specialmente davanti a tali livelli di guadagno; troppo impegnato a vivere una vita al limite com’era.
Ha sperperato, o si è fatto rubare da sotto il naso, più di trecento milioni di dollari, una fortuna che farebbe vivere in maniera agiata generazioni e generazioni, circondandosi di figure dubbie ed elargendo denaro a destra e a sinistra, perché in fondo aveva avuto talmente poco prima che avere così tanto, ad un certo punto della propria vita, lo metteva in una dimensione a parte, in un’aura di invincibilità che poteva toccare con mano. È la triste parabola di tanti campioni, “dalla polvere all’altare”, e ritorno.
Ha fatto i conti con la vita, ad un certo punto: tre anni di galera per stupro, senza battere ciglio, un fatto che ne ha segnato inevitabilmente l’esistenza per sempre. In galera, Tyson dice di aver visto cose “non umane”, e si chiede se è possibile che un essere umano arrivi a bassezze del genere. La galera è l’esperienza più vicina alla morte che un uomo possa trovare, dice un Tyson amareggiato.
Amareggiato come quando racconta dell’episodio del morso dell’orecchio a Evander Holyfield: “in quel momento ho perso la disciplina, ed ero arrabbiato con me stesso come mai lo ero stato”. Disciplina. È l’essenza del pugilato, la qualità senza la quale sul ring non si può salire. Persa quella, hai perso tutto. Ed infatti Tyson non fu più lo stesso, agonisticamente. La carriera la chiuse virtualmente quel giorno del 1997, a Las Vegas, anche se poi si trascinò fino al 2005 sui ring di mezzo mondo, cercando di guadagnare per risanare i debiti che lo costrinsero a dichiarare bancarotta nel 2003.
“Non ho più il cuore per salire sul ring. Ho troppo rispetto per questo sport e per quello che mi ha dato per fare figure del genere”.
Le parole alla fine del suo ultimo incontro, perso per ko contro il mestierante Kevin McBride, quasi dispiaciuto di aver battuto una leggenda, restituiscono dignità ad un uomo perennemente e disperatamente alla ricerca di un equilibrio, che ha saputo vivere al massimo della velocità oppure al minimo, mai nel mezzo.
Criticabile, senza dubbio, ma mai banale. Comunque, dentro al quadrato, leggendario.
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