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La realtà che il Pakistan ci ha riconsegnato martedì, il giorno dell’attacco alla scuola di Peshawar, è molto peggiore dell’immaginario infido e violento che la quarta stagione di “Homeland” ci ha delineato.
Il paese, nonostante gli sforzi di affrancarsi dalle dinamiche del terrorismo islamista, è in piena guerra contro i Talebani. Il gruppo, come noto, opera nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan, e si dirama in una serie di sottogruppi tutti più o meno riconducibili alla sigla TTP (che sta per Tehrek-i-Taleban Pakistan, movimento talebano del Pakistan: qui in sintesi, chi sono).
Gli Stati Uniti laggiù hanno sempre avuto difficoltà di intelligence, anche per l’ambiguità dei servizi segreti interni: il famigerato ISI, considerato tra i più efficienti del mondo, ma spesso colluso e corrotto partner oscuro delle istanze radicali. Ora gli americani più che a terra, lavorano dall’alto, tenendo i droni sempre in allerta, aspettando le soffiate dei contatti, per colpire militanti usciti allo scoperto.
La tragedia avvenuta alla scuola di Peshawar, si inserisce in un quadro temporale che vede il governo di Islamabad aver intrapreso una faticosa trattativa con i ribelli talebani, senza tirarne fuori granché, e il TTP in una fase turbolenta, prossimo alla divisione (o almeno così si pensava dopo la morte del leader Hakimullah Mehsud colpito proprio da un drone nel novembre scorso, e la nomina al suo posto di una guida poco condivisa).
In Pakistan i Talebani ci sono ancora, e continuano a lottare con forza: così come ci sono inAfghanistan. In giugno al-Jazeera stimò in un’infografica, che il numero totale degli insorti fosse intorno ai quindicimila. Nonostante questo, Obama ha deciso (non senza paturnie e ripensamenti) di alleggerire la presenza militare in Afghanistan, il cuore dei Taliban – e anche l’Italia si ritirerà a partire dal 2015, lasciando soltanto 750 soldati, secondo l’annuncio di due giorni fa del ministro Pinotti.
L’attacco di Peshawar è stata una cosa «orribile», giusta definizione usata dal premier Matteo Renzi nell’intervento in cui sottolineava come il governo italiano si unisse al dolore dei pakistani (le scenate di alcuni nostri parlamentari sono state invece “patetiche”). Non si tratta semplicemente delle 141 vittime, una quantità enorme, ma della “qualità” di quei morti. Perché non è vero che i morti sono tutti uguali: ce ne sono alcuni che vanno pianti più di altri. È la nostra natura umana, la nostra emotività, a dettare certe regole, e il raziocinio a darne conferma.
Nel caso, i bambini e i ragazzi della scuola gestita dai militari, ma che accoglieva pure allievi provenienti da famiglie civili, presa di mira dai fanatici islamisti pakistani.
Uccidere i bambini significa uccidere il futuro. Il futuro di un Paese. Su quei bambini preme la speranza di un Pakistan libero e allontanato dalle derive radicali, dalle violenze, dalle guerre. Su quei bambini, come su quelli di Kabul e delle altre città afghane continuamente martoriate da attacchi e attentati, pesa la futura stabilità di un’intera area, ampia fetta della regione nevralgica tra Asia e Europa.
Non a caso, in questi mesi, gli attacchi terroristici contro i giovani si stanno concentrando: le forze combattenti, anche dopo la preoccupazione internazionale suscitata dal fenomeno “Stato Islamico” e le relative reazioni, sono sempre più messe alle strette dalle campagne dei governi.
Gli obiettivi ora non hanno più la centralità sociale dei mall, come quello attaccato dagli Shabaab in Kenya un anno fa, o dei punti di aggregazione, mercati, piazze, luoghi di preghiera. Si mira a distruggere porzioni nevralgiche della società. Una società che si sta spostando verso posizioni più moderate e comincia a porre resistenza al sangue dei radicali, indirizza la via ai propri figli. Spostamento intollerabile per i gruppi islamisti più integerrimi, dunque cosa c’è di meglio da colpire che una scuola? Cosa c’è di più centrale nella società che la crescita e la formazione dei propri figli?
E allora, per questo, i Boko Haram in Nigeria rapiscono studenti e studentesse (185 presi proprio l’altro giorno), trasformandoli in schiavi, per colpire al cuore, e spaventare, chi si oppone alla loro volontà di applicazione della sharia in quel pezzo di territorio. Lo Stato Islamico rapisce i bambini curdi, per rappresaglia e per trasformarli, con il lavaggio del cervello, in fanatici radicali. Propaganda e azione. Membri di Hamas, qualche mese fa, hanno preso a sassate i bambini nel giardinetto interno di un asilo.
Nelle stesse ore dell’attentato in Pakistan, dove perdevano la vita 141 persone, la stragrande maggioranza minorenni, venivano uccise altre 15 bambine in Yemen.
Colpire i ragazzi e i bambini, significa distruggere la speranza. E senza speranza il fanatismo religioso diventa una via praticabile, quasi una soluzione, un senso della vita. Si creano mostri, al buio.
È noto come molti dei giovani attentatori, le cui gesta in questi mesi si sono susseguite nelle cronache mondiali, lupi solitari figli della fascinazione del Califfato, siano persone ai margini della società, isolate, disperate appunto. L’applicazione estrema, radicale, sballata, dei precetti religiosi, è sembrata a loro l’unica via di realizzazione. Ragazzi bruciati sull’altare del fanatismo, sacrifici sociali spaventosi.
Ragazzi, come Malala Yousafzai, da poco premio Nobel per la Pace, a cui i talebani avevano sparato nel 2012 per aver fatto propaganda per l’istruzione femminile nella valle dello Swat, sempre in Pakistan. Una speranza.
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