Anna Lombroso per il Simplicissimus
Il mio preside al liceo Marco Polo era un fedele servitore del Provveditore, genericamente codardo, italianamente conservatore, probabilmente anche se non esplicitamente nostalgico, universalmente mediocre, ottusamente puntiglioso, autoritario non riuscendo a essere autorevole. La sua frase più usata con me e con qualche altro di quelli “è intelligente ma potrebbe fare di più”, era: qui si studia e non si fa politica. Durante l’anno tutti facevano gli spacconcelli, ma quando si avvicinavano gli scrutini e poi la maturità era una gara a compiacerlo, a recuperare, a “mettersi in pari”.
Mi è quindi facile immaginare il pool dei cervelli affaccendati intorno ai 15 fogli protocollo, che originariamente erano 26 ma “scritti larghi”: ce le mettiamo le pensioni? E le liberalizzazioni, che dite ce le infiliamo le liberalizzazioni che fanno fico? Tagli, l’importante è che facciamo i tagli, fa buona impressione! Grandi opere e infrastrutture, siamo il Paese di Michelangelo, no? E salvare le banche, al preside interessa che si salvino le banche e noi lo accontentiamo. Come si chiama quella roba là? Si dismissione del patrimonio dello Stato, si mettiamocelo, è moderno e così il premier si compra il Pantheon in liquidazione, altro che mausoleo a Villa Certosa.
Come tutti i ripetenti riottosi si prendono all’ultimo. E i nostri scolaretti sono abituati a lavorare sulle emergenze, hanno imparato la lezione che le crisi mai ammesse e lasciate decantare favoriscono le soluzioni estreme, la desiderabile ingiustizia, l’erosione dei diritti e il tradimento delle aspettative in nome della superiore necessità.
In mancanza di meglio, scartabellando gli appunti tra le tazzine di caffè, i posacenere pieni, con la Gelmini che distribuisce l’ovetto sbattuto hanno trovato la soluzione: lettera per lettera, mandare all’Ue quella di Alfano agli elettori, o a Babbo Natale? Non importa per chi era, che trovata! Così insieme ai buoni propositi e alle promesse spediscono fermo posta tutto quello che hanno fatto in questi tre anni, talmente compresi e indaffarati da non accorgersi che stavamo andando a fondo, nel generale declino dell’occidente e anche un po’ di più.
Ma il vero coup de thèatre pare sia la paginetta dedicata alle due manovre correttive dei conti, “varate tra luglio e agosto e con impatto sul quadriennio 2011-2014. Due manovre che ridurranno l’indebitamento netto per circa 2,8 miliardi quest’anno per salire fino a 59,8 miliardi nel 2014, l’anno successivo al pareggio di bilancio, che sarà conseguito nel 2013”. Nella missiva si sottolinea che “le misure sul fronte delle entrate contribuiscono per la quasi totalità della correzione di quest’anno e per circa due terzi nel triennio successivo”, surrealisti a loro insaputa, dadaisti senza volerlo, competenti si, ma solo nel vendersi la nostra pelle prima della caccia. Se hanno riso prima figuriamoci adesso, con la conferma dei più triti stereotipi sugli italiani “pataccari” che si vendono con la Fontana di Trevi anche la quadra che non c’è, i “fondamentali” taroccati, le riforme in riformatorio.
L’altra sera chi si fosse imbattuto in qualche inquadratura del “Grande Fratello” avrebbe potuto assistere a una scena simbolica: una platea irridere sgangheratamente una improbabile concorrente rea di amare la lettura, applaudendo invece entusiasticamente un’altra squinzia che si vantava di leggere solo Topolino. Un’allegoria esemplare della “gente”, della trasformazione compiuta da cittadini a teleutenti e consumatori, del primato delle scorciatoie, del processo di infantilizzazione del Paese, di quella corruzione che contagia comportamenti pubblici e atteggiamenti privati, con una abitudine alla legittimazione dei piccoli espedienti, degli imbrogli solo apparentemente innocui, dell’indulgenza di fronte ai tunnel della Gelmini, ai vizi privati del presidente e a quelli pubblici del governo, tollerati benevolmente in modo che vengano altrettanto concesse e condonate tutte le licenze di tutti.
Siamo nelle mani di furfantelli ignoranti e beceri, piccoli cialtroni che vogliono far credere che i voti siano cambiali in bianco, che la forza del consenso possa rendere nulla la forza del diritto, che dobbiamo scegliere in loro favore per evitare uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità illegittima e una legittimità illegale.
Quelle risate venute da due servitori del monetarismo più cieco e rapace, anch’essi pericolanti sull’orlo dello stesso baratro, ci devono colpire: non penalizzano il governo dell’evasione e dell’elusione della crisi, non criminalizzano solo il pagliaccio che fa le corna nelle foto ufficiali. Condannano noi che lo sopportiamo come una calamità naturale, sapendo che come per la pioggia a Roma o in Liguria, non c’è nulla di naturale nell’assistere impotenti e inani al golpe più ridicolo degli ultimi 150 anni. E condannano la sua lettera, che va bene solo a “c’è posta per te”.