I leader europei tergiversano e concludono con il solito nulla di fatto. I «nein» della Merkel, i «peut-ȇtre» di Sarkozy e i «tuttavia» di Monti sono finiti tutti nello stesso scarico, centrifugati e rimestati per un prodotto finale che parla di tutto ma che non contiene vere misure.
È l’Europa della crisi. Una crisi non solo economica ma anche politico-istituzionale, talmente grave da far riemergere con prepotenza lo spauracchio del tracollo dell’euro. La stampa economico-finanziaria sfodera analisti segugi per concepire tutti i possibili e inquietanti scenari del crac del vecchio continente. Tutto ciò ha del macabro, eppure lo si può davvero osservare senza muovere un dito? Quali frutti può portare il procrastinarsi di questa politica del rischio calcolato?
L’euro, dal suo immaginifico e iperuranico mondo valutario, sta lanciando in queste ore il suo ultimatum. Con lungimiranza bisognerebbe essere in grado di riceverlo e rispondere con prontezza. Le possibili contromisure sono già sul tavolo della discussione. Ma come al solito le gambe scricchiolano. L’asse Merkozy si sta incrinando e l’accoglimento di Monti a Strasburgo non ha cambiato di molto le carte in gioco. La prosecuzione del dialogo attraverso il format del trilaterale, infatti, contiene già in nuce i germi della crisi politica. Monti lo ha sottolineato, felicitandosi di partecipare all’incontro ma ribadendo l’importanza del metodo comunitario. Ad ogni modo, fino ad oggi nessuno degli esclusi si è offeso, proprio perché tali incontri sono stati poco fertili nel partorire idee concretizzabili.
Le ricette alla contagiosa malattia dell’euro sono fondamentalmente tre. E, nel rispetto rigoroso delle leggi della simmetria, altrettanti sono i paesi che le caldeggiano, salvo poi criticare le idee altrui. L’idea italiana contro la crisi è da sempre stata quella degli Eurobond. La creazione di una Agenzia Europea del Debito incaricata di emettere obbligazioni di debito europeo per finanziare il deficit degli stati, fino a concorrere con il 40% dei Pil nazionali, avrebbe consentito di superare la sfiducia dei mercati nei confronti di uno solo o alcuni stati, poiché a garantire il refund sarebbe stato l’insieme dei paesi emettitori. Questa proposta, che oggi è appoggiata anche dalla Francia perché spaventata dall’imminente comunicazione di downgrade della sua tripla A, ha visto le critiche della Germania, poco disposta a «pagare» per il lassismo di bilancio degli altri paesi. La punta di diamante di Parigi, invece, consiste nella richiesta di un ruolo nuovo e più penetrante per la Banca Centrale Europea. Una banca che, per funzionare davvero, non dovrebbe, come fa oggi, sovrintendere alla rete delle varie banche centrali nazionali e limitarsi a una politica monetaria di controllo dell’andamento dei prezzi contro l’inflazione, ma, piuttosto, fungere da prestatore di ultima istanza per i governi a rischio default. L’idea non è maligna, se si considera, ad esempio, che il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria, lo strumento attualmente utilizzabile per il risanamento dei paesi insolventi, ha una capacità di prestito di 440 miliardi di euro, mentre solo il debito italiano ammonta a 1900 miliardi. Non soccorre in aiuto il Fondo Monetario Internazionale. Anche Christine Lagarde sa quanto siano vischiosi i processi di prestito e a quanti interessi, diciamo, extrafinanziari, siano ad essi legati.
Se solo la Bce potesse prestare liquidità ai governi, ci sarebbe un ottimo sistema per arginare la crisi di panico che continua a imperversare nelle borse. La nettezza di questa cura ha, però, un neo: per dare alla Banca europea simili poteri, occorrerebbe modificare il suo statuto e non si esclude che una diversa configurazione da un punto di vista strettamente sostanziale non richieda altresì la modifica dei Trattati istitutivi dell’Ue. Comunque la Germania non è d’accordo neanche a questo. È chiaro: non vuole perdere il controllo delle sue politiche monetarie, facilitato dal buon rapporto con la Banca di Francoforte. E Monti, che asseconda Draghi, non può che fare spallucce a tale rifiuto.
Ma allora la Merkel cosa propone per risolvere la crisi? Il suo espediente personale non è altro che una summma annacquata di cose dette e ridette in passato. Vale a dire: un’unione fiscale. Che significa? Armonizzazione delle leggi sulle tasse, lotta comune all’evasione e austerità per tutti. Più altre blande misure contenute nel magniloquente quanto inconcludente Patto Europlus. L’unione fiscale, infatti, sebbene auspicabile nel merito, sarebbe inutile adesso da un punto di vista pratico per un semplice motivo. I tempi richiesti da una simile riforma sono quelli della modifica dei trattati. Una modifica che implicherebbe la rinuncia a un’altra fetta di sovranità per gli Stati e, quindi, una ratifica dei singoli parlamenti con eventuale proposizione di referendum. Servirebbero mesi? Più realisticamente anni. Ma nel frattempo, l’euro potrebbe essere già il malinconico ricordo di un glorioso passato.