G. De Chirico, Il trovatore (1917)
Giorgio De Chirico (1888-1978) è indubbiamente uno degli artisti più conosciuti del Novecento italiano ed è da sempre associato alla pittura metafisica, che punta a decontestualizzare il noto (principalmente gli oggetti) e a collocarli in nuovi scenari, proponendo una negoziazione nuova del loro significato. Alla base, naturalmente, c'è il senso di disorientamento e riorganizzazione cognitiva che è la cifra fondante del secolo breve e che rende molto difficile distinguere chiaramente le diverse esperienze generate da questa epoca di incertezze.Come evidenzia il percorso espositivo ferrarese, il Novecento, soprattutto nei suoi primi decenni, ha dato vita ad una commistione di influenze surrealiste, metafisiche, futuristiche e dadaiste che hanno il comune presupposto nella volontà di discostare l'arte e il suo spettatore dal consueto, suggerendo di andare oltre le convenzioni e le tradizioni e di reinterpretare ogni cosa, facendo dell'oggetto banale un'opera d'arte o la chiave di lettura di un grande mito.
La mostra propone un approfondimento sulla produzione degli anni 1915-1919, estendendo però l'arco cronologico di riferimento fino agli anni '30 per sottolineare la comunanza di temi e scelte artistiche nelle tele di altri artisti, come Max Ernst, Salvador Dalì, René Magritte, Le Corbusier, Giorgio Morandi. L'anno 1915 non è casuale: in quel periodo De Chirico è a Ferrara assieme al fratello Alberto (che avrebbe firmato le proprie tele e opere letterarie come Alberto Savinio), ricoverato presso la Villa del Seminario dopo l'arruolamento nell'esercito italiano. Appartengono a Ferrara le architetture che compaiono nelle sue tele, come il castello estense sullo sfondo de Le muse inquietanti (1918) e qui avviene il primo contatto con Carlo Carrà e con la pittura metafisica. De Chirico e Carrà, infatti, dipingono gomito a gomito i loro manichini, senza risparmiare al loro pubblico una querelle sulla paternità di queste figure (episodio piacevolmente ricordato anche durante l'incontro con Wu Ming 2 a Verona).
G. De Chirico, I giocattoli del principe (1915) e Il sogno di Tobia (1917)
S. Dalì, Gradiva ritrova le rovine antropomrfe (1931)
A Ferrara De Chirico abbandona le piazze per ripiegare negli interni che si affollano di «oggetti che la scempiaggine universale relega tra le inutilità», dagli strumenti di misurazione matematica al pane e ai dolci delle pasticcerie ebraiche, avvicinandosi gradualmente a quegli accumuli di sostegni per le tele, dipinti realizzati all'aperto stipati nelle stanze e combinazioni di materiali sempre meno identificabili che segnano il percorso verso il trionfo dei grandi manichini.G. De Chirico, Interno metafisico con grande officina (1916)
La visita alla mostra di Palazzo dei Diamanti ha sicuramente valso la lunga attesa, e non solo per la semplice emozione di essere di fronte a dei capolavori che, in qualche modo, fanno parte della nostra storia culturale come una memoria genetica. I colori e i tratti di Giorgio De Chirico emergono in tutta la loro intensità soltanto ad una visione diretta della tela: non esiste fotografia o riproduzione che possa far brillare altrettanto gli smeraldi, né schermo ad alta risoluzione che restituisca la pulizia delle linee. Indescrivibile è poi l'emozione che si prova di fronte a capolavori come Ettore e Andromaca o Il trovatore, ma anche ammirando la geniale Condizione Umana di Magritte, proposta come raffronto con la produzione di un altro artista che ha portato i cavalletti dei pittori dentro alla tela. La compresenza, in mostra, di opere di artisti coevi e successivi, inoltre, permette anche al visitatore meno esperto di cogliere le analogie (come quella con le figure struggenti di Gradiva ritrova le rovine antropomorfe di Salvador Dalì (1931), ammesso che questi vi si soffermi.Il tratto dolente dell'esperienza di visita, infatti, è nella gestione delle sale. Passi per la lunga coda, forse sfuggita di mano per l'overbooking o per una cattiva gestione delle prenotazioni (perfino chi ha già il biglietto, come si legge ora anche sul sito, arriva ad attendere all'ingresso), ché se arriva un pubblico numeroso non è possibile far altro che aspettare, essendo i locali molto piccoli. Ma la situazione all'interno, in casi di così alta affluenza, rende estremamente difficoltosa la visita e, soprattutto, il godimento diretto dell'opera: che si debba attendere il proprio turno per stabilirsi di fronte all'opera è doveroso, ma essere messi nelle condizioni di aspettare minuti e minuti la dine della sfilata dei patiti della foto prima di potersi avvicinare ai capolavori è inaccettabile. Non sono contraria alle foto nei musei (fermo restando che nessun dispositivo impugnato da un non professionista possa rendere giustizia all'opera), ma sta alla decenza dello spettatore capire che in situazioni di simile affolllamento la mania feticista di alzare lo smartphone e scattare senza nemmeno osservare l'opera è una mancanza di rispetto per chi investe il proprio tempo e denaro per ammirare l'arte direttamente una volta tanto che gli è possibile conoscerla al di fuori delle riproduzioni. Se il buon senso non prevale, a mio avviso, occorre un regolamento di sala che impedisca simili atteggiamenti.
G. Morandi, Natura morta con manichino (1919)
C. Carrà, Penelope (1917) e G. De Chirico, Ettore e Andromaca (1917)
Insomma, consiglio sicuramente la visita a chi non l'abbia già affrontata, con l'avvertenza che la mostra De Chirico a Ferrara terminerà domenica 28 febbraio e che i biglietti in prevendita per il finesettimana sono già esaurite: approfittate, se potete, dei prossimi quattro giorni.
C.M.Articolo originale di Athenae Noctua. Non è consentito ripubblicare, anche solo in parte, questo articolo senza il consenso del suo autore e senza citare la fonte.