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Un adolescente in Pensione

Da Danielevecchiotti @danivecchiotti

Un adolescente in PensioneScrivere, diceva Rainer Maria Rilke, ha senso se e solo se è un atto che nasce da necessità, da un istinto interiore slegato da fini mondani o utilitaristici.
La mia carriera di imbrattacarte iniziava ventidue anni fa, quando, adolescente, mi appassionai ai romanzi di Stephen King e sentii una specie di canto ammaliatore che, da dentro, mi incoraggiava a lasciar perdere i miei compiti a casa di liceale per provare anch’io a raccontare le mie storie con quello stile accattivante e pieno di fascino.
Certo io non ero il tipo da scenari horror: il sangue, le streghe e i mostri verdi non avevano mai fatto granché parte del mio mondo. Così decisi di imitare il re del brivido applicando i suoi metodi alla mia più banale vita di teenager per il quale tutto ruotava a un juke-box e ad una compagnia di amici di periferia, ragazzi in costruzione con i loro primi esperimenti di vita vissuta.

E, volendo a tutti i costi avere un pubblico che rendesse un po’ meno onanistico il mio gioco (visto che di onanismi ne praticavo già in abbondanza), pensai bene di partire dalle storie che vedevo accadermi attorno, a scuola o al bar sotto casa, e, pur deformandole un poco per renderle più colorate e piacevoli alla lettura, fare nomi e cognomi reali delle persone a cui i miei personaggi erano ispirati.
Presi insomma il gruppo di coetanei con i quali condividevo il periodo più brufoloso della mia vita, ne accentuai i pregi e i difetti (ma soprattutto i difetti) quel tanto che bastava a garantirmi qualche lettore spinto da narcisismo o curiosità, e costruii un fogliettone in cui gli amorazzi e i primi tentativi erotici (altrui) tipici di quella fase della vita diventavano gli ingredienti base delle mie trame. Trasformai il circolo da bocciofila in cui per lo più ci incontravamo in un paradossale, astruso albergo di lusso paradossalmente chiamato “Pensione Marisa” e provai a vivere sulla carta quella vita che, nella realtà, mi limitavo ad osservare da dietro il vetro delle mie insicurezze. Ambientai il tutto nel corso di un’estate che – allora non lo sapevo, me ne accorsi solo anni dopo – era destinata a rimanermi per sempre addosso come l’allegoria perfetta per rappresentare quell’età caratterizzata da confusione e disorientamento.

Ieri sera, mentre, con un po’ di maturità e parecchie rughe da scottatura solare in più, raccoglievo le idee per il romanzo estivo “La ragazza del Festivalbar”, ho sentito un altro canto ammaliatore: quello che mi invitava a tuffarmi in cantina e a ripescare i vecchi quaderni manoscritti di “Pensione Marisa”.
Perché forse l’incontrollabile voglia di scrivere una storia estiva che da qualche anno mi gira nel sangue, il bisogno di romanzare una storia di juke-box, canzonette e sesso inesperto, deriva proprio da lì, da quel primo maldestro tentativo di risolvere la mia incompiutezza di uomo ancora non formato, di ragazzino in stand-by, attraverso la parodia dei miei anni giovanili scritta mentre ancora li stavo vivendo.
Forse sento che allora era troppo presto e che adesso, invece, comincio ad essere pronto per ritrovare e riaffezionarmi a quell’adolescente in pensione che, non riuscendo a partecipare appieno all’esperienza della crescita, cercava almeno di ritagliarsi un ruolo raccontando ciò che succedeva agli altri.


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