Approfittando della pausa lavorativa (più unica che rara) del Ninnatore, abbiamo trascorso questo lungo week end qui. Causa budget ridotto e lieve sociopatia recentemente sviluppata dai membri adulti del nucleo famigliare, la scelta è ricaduta su questo agriturismo sperduto ad una decina di curve a gomito dal mare (in salita e rigorosamente senza protezioni).
La prima impressione è stata un po’ forte. Al crepuscolo, e dopo un feroce acquazzone, il posto c’era sembrato infinitamente desolato, la camera un po’ spoglia (a parte l’allegra colonia di ragni che abitava il bagno) e, orrore degli orrori, non c’era campo! Niente di niente, neanche una tacca, nemmeno in punta di piedi col braccio teso fuori dalla finestra.
A dare il colpo di grazia un vago avvertimento della proprietaria: “chiudete il cancello a valle quando passate, sennò entrano i cinghiali e mi rovinano l’orto!“.
L’orto? L’ortooooo?? No scusa, perchè se non c’era il rischio che rovinassero l’orto che dovevamo farci con i cinghiali? Invitarli in camera per un té?? Eravamo in un luogo sperduto, isolati dal resto del mondo, scoraggiati e in netta minoranza tra tutte le specie animali presenti.
E poi invece, la mattina seguente, il canto del gallo ha aperto davanti ai nostri occhi un mondo da favola: una distesa di verde sconfinata a picco sul mare. E poi i rumori, i sapori, gli odori. Peccato non poter postare il verso del tacchino (incazzoso), il profumo dei limoni e il sapore del caffellatte (quello vero col latte fresco e il caffè della moka).
Abbiamo fatto colazione immersi nel verde e con la vista sul mare; con la marmellata di mirtilli e le torte fatte in casa.
Abbiamo fatto vita da spiaggia, spalmato chili di protezione solare, tentato e fallito un approccio marmocchio al mare: “a me quetto male non piaze… si muove tloppo!”.
Girato le Cinque Terre, preso tre battelli in meno di sei ore, scarpinato lungo la Via dell’Amore (al modico prezzo di 5 euro a cranio), portato Marmocchia e passeggino su e giù per milioni di scalini, sudato come capre, rischiato il collasso, mangiato pesce, comprato testaroli e pesto rosso.Abbiamo scordato i cellulari, la tv, i rumori di città, ma lo stesso pensato che la vita di campagna non è cosa per almeno due membri su tre della famiglia.
Osservato estasiati il tramonto, passeggiato lungo mare, visto scorci di paesaggio indimenticabili.
Ascoltato il silenzio, osservato decine di specie animali e vegetali mai viste dal vivo.Preso in giro il tacchino (sempre più incazzoso), ascoltato gli asinelli, sterminato una quantità enorme di ragni (e non me ne vogliano gli animalisti se le stragi le ho commissionate tutte io). Familiarizzato con un coleottero (meglio conosciuto come “bagarozzo”), appreso che il suddetto ha usi bislacchi (devasta le piante, si accoppia e poi schiatta) e pensato che dagli animali c’è sempre da imparare.
E ci siamo ritrovati in un soffio all’ultima sera. A mangiare coniglio senza chiamarlo per nome (per non traumatizzare la giovane mente marmocchia), in compagnia di due nonni torinesissimi e del loro inconfondibile accento.
Ad ascoltare i racconti di chi ha mollato la vita di città e il suo lavoro da impiegata per ricominciare a vivere (e vivere davvero) in mezzo alla natura; di Tony Raglia e del letame pregiato; della balena “feroce” che ha terrorizzato la costa facendo interrompere la navigazione per poi scoprire che era solo una mamma, intenta a vegliare fino alla fine il suo cucciolo ferito.
E a mischiare il bianco col rosso e sentirselo scorrere dentro in un unico fiume rosè. E a sentirsi le gambe pesanti e la vita leggera.E a stupirsi che ancora succeda.