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Un altro parallelo.

Da Pamirilla

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   Foto presa dal web

Un altro parallelo

Un altro parallelo. E un po’ più a nord da qui.

Un’altra città, una che non è questa e non gli somiglia.

I viaggi sembrano, di solito, sospendere le nostre vite dentro una bolla, come quelle che se le agiti viene fuori la neve.

Il cielo grigio e immobile pare confermare che io sia dentro una bolla e se qualcuno la agitasse forse briciole bianche di finta neve si libererebbero come coriandoli per un po’, prima di scomparire chissà dove di nuovo.

La prima cosa che vedo uscendo dall’hotel è una “civetta” esposta dal giornalaio poco più avanti. Annuncia la morte di Abbado.

La notizia mi punge come un dolore allo sterno e contemporaneamente mi stupisco di questo dolore sincero ed inaspettato che non so spiegare.

Percorro vicoli e stradine porticate senza metodo e senza una cartina che mi spieghi il percorso.

Ogni tanto si apre qualche immenso portone su cortili di ineffabile bellezza e grandezza e della cui esistenza non c’è indizio all’esterno. Automaticamente leggo la targa con il nome del palazzo e mi rendo conto che non riesco a leggere il testo che segue, senza occhiali. Ma quand’è che sono diventata così cecata?

A volte svolto dove percepisco più movimento, seguo i passi di altri o le note di un musicista di strada. Ma svolto anche ogni volta che sento un profumo che mi piace e a naso arrivo nel mercato vitale e allegro nel cuore di questa città. Formaggi e verdure, colori e forme, profumo di pane, profumo di vita.

Cammino ancora sul dolore dei piedi e la stanchezza delle spalle e arrivo ad una piazza piena di ricordi lontani. Ci sono transenne, tante persone e soprattutto tantissime telecamere e televisioni. Ma mi vergogno a chiedere cosa sia successo.

La gente è ferma e aspetta non so cosa. E’ ordinata e silenziosa. Ferma, come il cielo grigio sopra di noi.

Con leggerezza e naturalezza che mi sorprende due tipi con la telecamera di un’ importante tv fermano una nota donna dello spettacolo che evidentemente abita qui in piazza perché è scesa senza nemmeno indossare un cappotto. Lei si lascia intervistare e parla con mitezza, con dolcezza e a voce bassa. Poi si infila di nuovo nel pesante portone che la inghiotte. E io capisco dalle sue parole che è morto qualcuno che lei conosceva. Penso: Abbado.

Non avevo idea che abitasse qui, che fosse uno della piazza, uno di questa piazza di questa città, come ha detto lei.

Siedo sul muretto di fronte alla bellissima chiesa che si allunga sulla parte destra della piazza perché i miei piedi me lo impongono e anche gli stinchi e qualche altro doloretto di stanchezza sparso qua e la.

Noto un carro funebre davanti all’entrata.

Due ragazze meno timide di me mi chiedono cosa sia successo e io rispondo che non lo so. Forse è per la morte di Abbado, dico. Ma non lo so.

Poi penso che non può essere che ci sia già il funerale se la notizia della morte è così recente.

Il ciottolato appuntito della piazza costringe la gente a soffrire mentre cammina e vedo alcune signore camminare storte e a fatica, sul viso una smorfia contratta.

Due ragazzi si siedono accanto a me e a un certo punto non resisto e chiedo se sappiano cosa stia succedendo.
Uno dei due ragazzi parla con le mie stesse parole di prima. Dice che forse è per la morte di Abbado. Però non lo sa.
Poi dice che la prima cosa che ha visto uscendo di casa è una “civetta” che ne annunciava la morte e allora ha pensato così.

Se questo fosse un film crederei che l’immagine di lui che ha visto e pensato le cose che ho visto e che ho pensato io e che poi mi ha risposto usando le stesse identiche parole che ho usato io quando ho risposto alla ragazza di prima è fortemente simbolica e vuole dire qualcosa ma questo non è un film, è una bolla nella mia vita, quindi non cerco significati ma mi sembra strano. Mi sembra buffo nella sua semplicità estrema senza sottotesto.

C’è ancora gente ferma, che aspetta, e gente che si incontra e si sorride e poi cammina via, due donne si fermano a salutarsi e parlano con un’allegria che nessun altro ha e che sembra stonata e un po’ troppo strillata ma forse è solo la vita che reclama se stessa.

Nessuno piange, qualcuno soffre molto camminando sui ciottoli piccoli e appuntiti che lastricano la piazza.

I giornalisti delle tv con le grosse telecamere sulla spalla ogni tanto fermano qualcuno e fanno un’intervista a bassa voce, senza disturbare nessuno.

Mi alzo e vado via perché comincio ad avere freddo sul muretto di pietra.

Nei forni è carnevale.

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Vedo questi dolcetti lucidi di miele, mi affascinano subito e ne compro un sacchetto per assaggiarli.

La ricetta la cerca in rete e me la segno per provarla presto.

Sono le tagliatelle fritte e caramellate.

Si fa la sfoglia come per la pasta all’uovo classica, si pennella con abbondante zucchero sciolto nel limone e poi si arrotola e si taglia. Quindi si frigge.


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