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Un amore viscerale

Creato il 10 febbraio 2014 da Lundici @lundici_it
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Il mio rapporto con le istituzioni affonda le radici nel lontanissimo 1984, anno in cui iniziò il mio declino personale, legato ad un problema psicologico noto con il nome di “attacchi di panico”.
L’istituzione che allora – nelle persone degli insegnanti delle superiori – avrebbe dovuto interessarsi del problema, disattese i propri doveri di educatrice. Gli insegnanti, preposti a seguire gli allievi in base a programmi ministeriali, si limitarono a registrare il repentino calo del profitto di Marcello; ma non la sua discesa, che segnava il prodromo ad uno sprofondare, ad un inabissamento fino ad obnubilarlo. Essi verificavano solo gli effetti di quel fenomeno senza preoccuparsi, neanche minimamente, né delle cause né dei possibili rimedi.
Uno solo fra essi, la professoressa Dell’Ala Succi, inascoltata da tutti gli altri, mostrava di non volersi arrendere a quell’evidenza, tentando, per quanto era possibile nelle sue forze, di riportarmi ai vecchi livelli. Durante i due anni precedenti lei era stata testimone, alla stessa guisa degli altri insegnanti, delle mie intuizioni, delle mie “prodezze”. Il ragazzo che le si mostrava oggi le procurava un’angoscia tale da farla smarrire.
Perseverò nel suo intento, ogni giorno lo affrontava per la mia ricostruzione. Non mi sono mai sentito abbandonato a me stesso, il solo tentativo equivalse alla soluzione stessa.
La tenace e intelligentissima professoressa Dell’Ala Succi, aiutata dalla sua esperienza di insegnante, donna e madre puntuale, riuscì a dimostrarmi la mia inclinazione naturale: lo studio puro. In realtà per me lo studio non rappresenta soltanto l’attività verso cui sono incline. È molto di più, è la passione per cui sento, fin nelle viscere, di essere nato.
La pervicace e tenera professoressa, ancorché per tutti gli studenti fosse la più temuta dell’istituto, non solo riuscì nell’impresa, ardua, di riconsegnarmi allo studio ma durante quell’anno – questo pressappoco il tempo che impiegò per riacciuffarmi – fu l’artefice dell’opera più grande che potessi ricevere in dono, mi permise di ritrovare la mia parte più bella. Nonostante la sua dedizione, non intuì mai la causa di quello strano fenomeno e consequenziale repentino declino.
Tranne che in rarissime occasioni, ovvero quando per me non vi era alcuna via di fuga, ero abilissimo a nascondere le manifestazioni esterne. A quei tempi, potendo contare su di una capigliatura foltissima, adagiavo i capelli sulla fronte, in tal maniera il sotterfugio mi sottraeva allo sguardo curioso di chi mi si trovava al cospetto, consentendomi di nascondere il problema e trovare il tempo necessario di fuggire altrove.
I primi tempi furono disastrosi. Non riuscivo a recarmi in alcun luogo, sia esso un ufficio, un negozio, una stazione ferroviaria o qualsiasi altro posto frequentato dalla gente, se non accompagnato. A volte, in preda al terrore che mi accadesse quel fenomeno, non riuscivo neanche a rimanere in casa quando vi si trovavano persone estranee alla mia famiglia; in quel caso, senza destar sospetto, mi rifugiavo sulla loggia del palazzo.
Fu solo molti anni dopo che scoprii che non avrei dovuto nascondere quel problema, né fuggire e né evitare di uscire o di incontrare chicchessia. Appresi tale approccio dalla lettura di un libro, Il male oscuro di Giuseppe Berto, il quale ha rappresentato l’abbrivo di una pace interiore che mi ha accompagnato lungo la strada della soluzione, percorsa sotto lo sguardo vigile di Daniela, la psicanalista che mi ispirò la richiesta di aiuto, sino a quel momento mai tentata, né tantomeno concepita.
Ritornando a quei primi tempi, ricordo chiaramente la situazione in cui mi era impossibile evitare la gente, nascondermi, fuggire.
Mi riferisco ad una situazione precisa, ricorrente. Quella che per molti studenti ha sempre rappresentato un incubo, per me diveniva un inferno; parlo dell’interrogazione classica, durante la quale si è solitamente in piedi ad un lato della cattedra per rispondere alle domande dell’insegnante sulle lezioni impartite precedentemente. In quel frangente la mia fronte grondava sudore che si componeva in gocce enormi le quali, in tempi brevissimi, mi inondavano tutto il viso, nonostante cercassi di asciugarlo.
Allorquando ero “costretto” a leggere qualche passo dal libro che reggevo con le mani, perdevo il controllo ed a quel punto, anziché essere concentrati sulle parole da commentare, il mio sguardo e la mia mente erano distolti da quelle gonfie gocce che si stagliavano sui fogli.
Ancora oggi un brivido mi attraversa la schiena, quando mi capita di sfogliare uno di quei testi scolastici. Quei fogli ondulati sono la memoria cartacea di quelle fitte nubi che mi oscurarono il cammino.
Mentre quel fenomeno si impadroniva di me, io perdevo, giorno dopo giorno, il contatto con la realtà… avevo solo sedici anni.
Quando udivo proferire qualche luogo comune sul mio problema, trasecolavo.
Marcello trascorreva molto tempo da solo, in quel tempo leggeva di tutto. Un giorno gli capitò fra le mani Aden-Arabia, un libro di Paul Nizan. Un capolavoro sul disagio giovanile: «Avevo vent’anni. Non permetterò mai a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita».
Anche se non proprio pertinente agli attacchi di panico, il testo lo aiutò a riflettere sulla sua condizione di giovanissimo e inesperto della vita.
Cercava risposte, soluzioni… senza sosta.
In quei momenti avrei potuto persino abbandonare la scuola; se non lo feci, fu soprattutto grazie alla professoressa di matematica che mi donò attenzione e bontà. Un episodio è scolpito in modo indelebile nella mia memoria, riguarda un gesto imprevisto che mi accompagnerà per tutta la vita.
Eravamo sul finire del terzo anno, durante un compito in classe.
La professoressa era solita strutturare il compito distribuendo più tracce fra gli alunni, al fine di evitare che qualcuno potesse copiare dai compagni più prossimi.
Io portai a termine la mia prova entro la metà del tempo a disposizione e consegnai il foglio. Fu a quel punto che la professoressa sbalordì l’intera classe, non solo me. Prese la traccia di Silvia Maretti e la consegnò nelle mie mani: «Svolgi anche questo compito» mi disse con tono deciso.
Quella manciata di minuti racchiudono uno dei ricordi più belli della mia vita, il pensiero di riscattarmi grazie alla fiducia riposta nelle mie potenzialità. Non potevo disilludere né lei né me stesso. La penna, la mia solita biro blu, scivolava su quel foglio all’unisono col mio pensiero, alla stregua di uno sciatore in discesa libera. La vista di quei numeri così perfettamente concatenati mi spedì in visibilio. Era la prima volta che leggevo tra i numeri, piuttosto che tra le righe. Quel gesto mi toccò le corde dell’anima e mi permise di concepire in prospettiva la vita.

Al quinto anno si presentò per me un nuovo bivio, un altro momento cruciale, trasposto nella domanda che si pongono quasi tutti gli studenti: «Fermarsi o continuare?».
Sul finire dell’ultimo anno delle superiori, quando gli studenti si appropinquano alla scelta della materia finale, questa donna minuta, dalla figura esile e gentile, mi impose la scelta: «Marchesi, tu studierai Fisica per l’esame finale».
Quel gesto rappresentò il miglior viatico per quella riflessione, per la strada da scegliere. Ero conscio che sarebbe stata una strada in salita. Non ebbi dubbi, l’affrontai senza esitare.
Per Marcello, che fino a qualche anno prima aveva avuto la vita “facile”, si presentava una prova molto ardua. Quella strada l’ha percorsa fino in fondo. Molte volte, stremato da questa forza avversa che – alla guisa di un vento fortissimo – lo spingeva all’indietro, è stato tentato di mollare l’impresa, ma non l’ha fatto. Non ha permesso che quel male gli togliesse ciò in cui si riconosceva: la sua identità. Lui ha potuto contare su di una coriacea volontà e un estremo senso del dovere. Chiuso nelle mura domestiche portava a termine la preparazione di un esame. Ma era da questo punto in avanti che nascevano le difficoltà, una su tutte era quella di doversi trovare in presenza di persone, pressoché sconosciute, ed avere il perenne timore che quel fenomeno gli facesse visita, senza dare un preavviso.
Quel male non l’ha più abbandonato, lo accompagna ormai da oltre venticinque anni.

Mentre Marcello ripercorreva le fasi più dolorose del suo passato, Sofia, durante quei duri giorni, scriveva una lettera.
Marcello da piccolo, come tutti i bambini, aveva dei sogni… non credo volesse diventare “qualcuno” in particolare. Il suo sogno più grande era rimanere se stesso. Fino a due mesi dal termine del secondo anno delle superiori aveva ottenuto ottimi risultati, era “il primo della classe”.
Poi accadde qualcosa che gli sconvolse la vita, che non riusciva a controllare, qualcosa di cui si vergognava moltissimo. Proprio come ieri sera.
Ci siamo incontrati nel pomeriggio. Dopo essere passati a casa di uno zio per il suo onomastico, siamo partiti, come ogni fine settimana, alla volta di Napoli, la città che amiamo e dalla quale siamo ampiamente contraccambiati. Giunti sul posto ci siamo dedicati all’attività che adoriamo di più su tutte, passeggiare a lungo per le accoglienti strade della città. Ad un certo punto, colti un po’ dalla stanchezza e dalla fame, abbiamo deciso di mangiare un panino in una birreria in viale Antonio Gramsci.
D’un tratto, mentre aspettavamo che venisse preparato il tavolino per noi due, ho rivolto lo sguardo verso Marcello… la sua fronte grondava sudore. Già conoscevo quel fenomeno, il suo nome è “attacco di panico” e l’unico modo per superarlo è aspettare che passi.
Ricordo bene la prima volta che ho assistito ad una manifestazione simile, allora non sapevo di cosa si trattasse ma feci un gesto spontaneo, che Marcello definì dolcissimo, asciugai la sua fronte imperlata, accarezzandola con le mie mani.
Da ragazzino è stato molto difficile per lui affrontare questo problema. Marcello aveva il vento in poppa, senza quei misteriosi attacchi avrebbe proseguito serenamente la sua vita, avrebbe continuato ad ottenere il massimo dei voti, forse all’università in breve tempo si sarebbe laureato ma mai avrebbe conosciuto quella splendida parte di sé che è venuta allo scoperto grazie alle tante domande postesi.
Oggi è un uomo che conosce abbastanza se stesso ed è sempre alla costante ricerca della verità. Insieme ai suoi tanti amici conosciuti attraverso i libri, ha imparato a controllare gli attacchi di panico, a non vergognarsene e soprattutto a rimanere nel luogo in cui si trova, quando accade, senza fuggire altrove.
È un lavoratore onesto; l’onestà è una delle tante virtù che lo contraddistinguono, adora raggiungere i suoi obiettivi senza mai piegarsi ai compromessi. Li ha sempre rifiutati, la sua mente non riesce neanche a concepire il meccanismo degli “scambi”. È molto meticoloso, controlla ogni cosa affinché nulla venga lasciato al caso e si fida solo dei libri scritti dai più importanti economisti, filosofi, studiosi.
Oggi lavora in questa azienda e i suoi colleghi hanno molta stima di lui. Gli dico continuamente che è un uomo molto intelligente e che può aspirare ai massimi livelli di responsabilità, ma lui mi guarda, sorride e dice: «Dai non prendermi in giro».

Nonostante quel male lo mettesse al tappeto, Marcello non ha mai voluto chiedere aiuto, per un motivo preciso.
Negli anni giovanili ha vissuto perennemente in bilico. Lo sforzo quotidiano – la fatica di affrontare un mondo che viaggiava ad una velocità diversa dalla sua – lo stremava.
Ha sfidato la natura, non ha voluto ricorrere agli specialisti della materia, psicologi, psichiatri e neurologi, ma non sulla base di congetture o preconcetti vari. Marcello inconsciamente si rifiutava di accettare che la sua mente si fosse procurata una ferita.
Lui era consapevole che avrebbe tratto beneficio da uno specialista ma aveva un impegno importante che glielo impediva, doveva prima concludere gli studi universitari. Nel giorno della laurea immaginava di chiudere un capitolo doloroso della sua vita, non fu così. Durante quegli anni cambiava la sua visione della vita, giorno dopo giorno Marcello si ritrovava a dipanare le matasse della sua mente, che diveniva sempre più inafferrabile. In un libro dello psichiatra Raffaele Morelli lesse che non bisogna spaventarsi quando ci vengono a far visita questi mali, è semplicemente il segnale che dobbiamo cambiare strada. Marcello, nel tentativo costante di cercare la causa di quello che, in molti momenti della vita, è stato il suo unico compagno, costruiva se stesso.
La costruzione non è stata semplice, l’edificio Marchesi veniva eretto su fondamenta traballanti, molte volte è crollato ed altrettante Marcello ha dovuto ricominciare dalla prima pietra. Ma repetita iuvant e così accadeva che, per quelle fondamenta, venivano usati materiali sempre più all’avanguardia, fino a giungere a quelle che oggi sorreggono un palazzo robusto e imponente.

Quella strada tracciata 

Da quel momento, giocoforza, Marcello intraprende tanti percorsi paralleli, uniti da un atipico filo conduttore, la lentezza.
A partire dal fatidico primo giorno di quel male, affronta tutto con ponderazione, osserva tutto con circospezione. Diventa osservatore del mondo ritrovandosi sempre più spesso ad astrarsene. Molto spesso si ritrova con amici immaginari che incontra per lo più nelle pagine dei libri, ad essi confida i suoi drammi e loro, con estremo garbo, non disdegnano di volerlo aiutare, di voler tentare di risolvere i suoi dilemmi. Proprio come nella sua attuale situazione.


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