Photo credit: Italian Embassy in Washington DC / Foter / CC BY-ND
E’ ormai il tormentone di questo inverno, la questione sulla bocca di tutti e che forse per prima porta la giurisprudenza a farsi strada nei discorsi di chi prima dell’argomento non si era mai interessato. Si tratta della decadenza di Berlusconi, e in particolar modo, per dirla “da giuristi”, dell’interpretazione della legge Severino.
Due sono state, sin dall’inizio, le questioni oggetto di grande dibattito. I sostenitori dell’inapplicabilità della norma nei confronti del Cavaliere si battevano infatti su due diversi fronti, sostenendo prima che l’indulto del 2006 avesse ridotto gli anni di pena da scontare da quattro a uno, e quindi la legge Severino, che sancisce l’incandidabilità dei condannati oltre i due anni, non si sarebbe dovuta applicare; poi, che il reato contestato a Berlusconi fosse antecedente alla norma, e quindi, per il principio di irretroattività dell’azione penale, sancito non solo dall’articolo 25 della Costituzione ma anche dall’11 delle Preleggi al Codice Civile, il leader del centro-destra dovesse esserne escluso dall’efficacia. Se le obiezioni dei “favorevoli” a Berlusconi sono piuttosto chiare, le risposte dategli lo sono state sempre molto meno.
In realtà la questione, in particolar modo riguardo alla prima delle due obiezioni, è risolvibile da chi ha pur poche nozioni di diritto. Nel momento in cui vi è un dubbio di interpretazione riguardo ad una norma, come evidentemente è in questo caso, viene in soccorso dell’interprete l’articolo 12 delle Preleggi del Codice Civile: un gruppo di norme un po’ particolare, non tanto nella loro efficacia quanto nel fatto che esse dispongono “per la legge in generale”, e che pertanto debbono essere tenute in cosiderazione, un po’ come si fa con una legenda in una cartina geografica, in ogni occasione quando si tratta di lavorare sulle norme dell’ordinamento.
Questo articolo 12 è rubricato, molto esplicitamente, “interpretazione della legge”. Dice che, nel momento in cui una legge va interpretata (cioè sempre), la prima cosa da fare è andare a vedere il significato letterale delle parole. Una banalità, ovviamente, ma non è che il primo passo. Nel caso in cui rimanga un dubbio malgrado la lettura letterale della norma, si deve osservare l’”intenzione del legislatore”, o quella che nel diritto proprio, che ama il latino, è detta “ratio legis”. Questa intenzione è evidentemente quella che il legislatore aveva nel momento in cui sviluppava la norma oggetto dell’interpretazione: di volta in volta sorgono problemi, e leggi vengono fatte per affrontarli. Ognuna di esse ha dunque una “intenzione”, che di volta in volta viene concretizzata nella speranza di risolvere il problema per cui si è posta.
Qual è stata dunque l’intenzione del legislatore nel momento in cui egli scriveva di applicare le sanzioni accessorie date dalla legge Severino a chi subiva condanne superiori ai due anni? In altre parole, perchè due anni e non tre, o quattro, o uno?
Per rispondere con attenzione è opportuno andare a considerare un’altra intenzione, un’altra “ratio legis”, quella propria degli anni di reclusione. Perchè dunque in determinati casi si danno più anni di reclusione ed in altri meno? Perchè il reato contestato a Berlusconi di anni ne presuppone quattro e non due? Evidentemente perchè il legislatore, da sempre, ha voluto individuare con il numero di anni di reclusione, che aumentano a mano a mano che il reato diventa più odioso, una sorta di “scala di gravità” dei reati in senso lato: per alcuni è stata ritenuto proprio una punizione (o una riabilitazione, sarebbe meglio dire) più duratura; per altri una più lieve. In questa scala di gravità, il reato contestato a Berlusconi è valutato “quattro anni”.
L’intenzione del legislatore nel momento in cui sanciva con la legge Severino una serie di pene accessorie per i reati puniti con un numero di anni di pena superiore ai due è dunque facilmente desumibile: egli ha ritenuto che tutti i reati così gravi da meritare almeno due anni di reclusione fossero tanto gravi da meritare anche queste pene accessorie ulteriori.
L’indulto tanto conclamato, evidentemente, non risponde a una esigenza, e non ha quindi come “ratio” quella di ridurre la gravità del reato contestato, ma bensì quella di risolvere una situazione carceraria inaccettabile, e quindi non influisce su come la società e il legislatore percepiscano il reato in sé, ma solo su come si svolge la punizione.
Di conseguenza, è ovvio, la legge Severino dovrebbe applicarsi.
Circa la seconda obiezione, e cioè il fatto che la legge non si debba applicare perchè altrimenti ci si troverebbe di fronte ad una violazione costituzionale del principio di irretroattività della legge penale, la questione è molto più dibattuta, e si sono sprecati pareri e analisi. L’ex sottosegretario alla Giustizia Salvatore Mazzamuto, ad esempio, ritiene che la legge Severino non debba applicarsi per via di una interpretazione letterale dell’art. 11 delle Preleggi, e conclude dicendo che “la giunta, se vuole, può assumersi la responsabilità di fare un’interpretazione (sua), ma deve fornire una motivazione sul perchè ha raggiunto una conclusione piuttosto che un’altra”. Dall’altra parte vi è la prassi usuale, per cui da che la legge Severino è entrata in vigore sono stati dichiarati decaduti tutta una serie di ex funzionari pubblici, senza per questo scatenare il putiferio che si è fatto per Berlusconi. Inoltre, la legge è entrata in vigore durante la scorsa legislatura, e dunque dovrebbe investire tutte le candidature seguenti, col risultato di includere certamente il Cavaliere nel computo.
La definitiva risoluzione della questione tuttavia, con buona pace di giuristi più o meno improvvisati, è comunque in mano alla Giunta, che si assumerà tutta la responsabilità politica della decisione.