
Quattro articoli per riepilogare il 2015 sportivo, e trattandosi di sport possiamo essere manichei: c'è chi ha vinto e c'è chi ha perso; ma c'è anche chi ha sorpreso e chi ha deluso. Divisi per categoria, ecco chi merita di essere ricordato nei bilanci sportivi di fine anno.
Qui parilamo delle rivelazioni del 2015.
CALCIO: LEICESTER
Sul miracolo allestito da Claudio Ranieri e sul record di Jamie Vardy si è già detto e scritto di tutto. Una squadra classificatasi al quattordicesimo posto nell’ultima stagione, e che lo scorso Natale era ultima.
Per l’allenatore italiano la leadership della Premier League è una sorta di un premio alla carriera, lui che mai ha avuto tra le mani il materiale adeguato per vincere un campionato.
E pensare che Jamie Vardy nel 2011-’12 – non un’era geologica fa, quindi – militava nel Fleetwood Town, formazione della serie Dilettanti inglese. Fu acquistato per 1,24 milioni di euro - un record per la categoria, ed il suo impatto con la massima serie fu tutt’altro che memorabile: 5 gol in 34 presenze.
Ma quest’anno, con il tecnico italiano in panchina, tutto cambia: la vita calcistica di Vardy prende il corso della rivoluzione e a fine novembre, proprio contro lo United, supera il record di un certo Ruud Van Nistelrooy. L'olandese volante aveva segnato per dieci giornate di fila, Vardy lo supera infilando il pallone in rete per l’undicesima volta consecutiva.
La favola Leicester durerà? Nonostante tutto resta difficile crederlo. A noi italiani può ricordare la parabola del primo Chievo di Del Neri, capace di raggiungere la testa della classifica all’inizio della stagione e poi di concludere al quinto posto, un solo punto dietro al Milan futuro campione d’Europa.
Il paragone non deve far sorridere: quel Chievo era una squadra bellissima e molto efficace. E come quel Ceo il Leicester è la grande sorpresa di questo anno calcistico.

Tutti ricordano lo scetticismo e la freddezza – eufemismi! – con cui il tecnico livornese fu accolto a Torino nel luglio di un anno fa.
Vuoi perché Conte era l’artefice della rinascita bianconera, vuoi perché l’addio di Allegri alla panchina milanista era stato davvero deprimente, le ragioni c’erano, eccome se c’erano.
Allegri si cala nella parte nella maniera più delicata possibile. Non alza mai la voce, lavora sul materiale (vincente) di Conte e ne prosegue il lavoro cercando di innovare con intelligenza. Et voilà, a maggio la Juve si cuce il quarto scudetto consecutivo sul petto, è in finale di Coppa Italia e ha già raggiunto le semifinali di Champions League. Allegri si è guadagnato la stima della squadra, ce l’ha in pugno e l’ha compiutamente rimodellata secondo le sue idee calcistiche.
Il mese di maggio è quello decisivo nella sua storia con i colori bianconeri. Vince la Coppa Italia, che stabilisce il confine tra stagione buona e trionfale perché segna la prima concreta differenza in positivo con Conte, e poi elimina il Real Madrid nella semifinale europea. Che poi perda la finale contro gli alieni blaugrana "poco" importa. Allegri ha già ottenuto la sua personale rivincita contro i detrattori che lo consideravano inadeguato.
Ma non è finita qui, perché al buon Allegri, come nelle infauste estati milanesi, la dirigenza viviseziona la rosa asportandone gli organi vitali (innestando materiale di qualità ma molto giovane). Allegri qui è alla prova del nove, è come se tutta la stagione precedente non contasse più: ora i detrattori hanno un nuovo motivetto, quello dell’Allegri incapace di costruire una formazione dalle basi.
Per la verità, fino a inizio ottobre sembrava avessero ragione. La Juve non ingrana, pareggia partite che dovrebbe vincere e perde quelle che almeno dovrebbe pareggiare. Il nuovo escamotage allegriano, però, sorprende tutti ancora una volta: l’ex tecnico del Milan riesuma il vecchio 3-5-2 e affida le chiavi dell’attacco a Mandzukic e Dybala. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: i bianconeri recuperano punti su punti e a Natale si ritrovano al quarto posto, a meno tre dalla capolista Inter.
A noi di Tagli sembra che Allegri meriti pienamente la nomina, ma ci piace pensare che questo premio sia, come dire, sub iudice: i meriti di Allegri sono evidenti e insindacabili, la sua capacità di resistere e superare le critiche encomiabile. Ma deve completare l’opera – e non lo diciamo da juventini. Che non significa vincere il campionato o arrivare nuovamente in finale di Champions. Significa piuttosto dare continuità al lavoro di questi mesi aggiungendo qualità al gioco – che diciamolo, in questi mesi è stata al ribasso – e restare ai vertici della classifica.
Significa, in ultimo, rimanere a Torino almeno un anno di più per dimostrare che è in grado di vincere anche con una squadra completamente sua.

Kareem Abdul Jabbar, Wilt Chamberlain, Larry Bird (due volte), Magic Johnson (tre volte); poi M. J. (sei volte), Shaq O’Neal tre, il Black Mamba due e l’ultimo arrivato, il Prescelto, due.
Che cos’è? È la lista, incompleta, dei giocatori a cui è stato assegnato il premio di Most Valuable Player (MVP) delle finali NBA.
Il premio esiste dal 1968-’69 ed è discretamente significativo. Lo prova il fatto che l’elenco sopra citato reca i nomi dei più grandi cestisti della storia. Vincere il premio significa aver impresso la propria umile impronta sull’andamento delle finali NBA tra i vincitori dell’east e della west conference, un massimo di 7 gare e adrenalina che sale progressivamente alle stelle.
Diciamo che per vincere il premio, essere forti aiuta.
Ora, il nostro Iguodala non sarà il più dominante dei cestisti americani di questa generazione, ma non è certamente uno che passava di lì per caso.
L’intuizione di Kerr in gara 4 – la sostituzione di Bogut con Iguodala con l’idea di estremizzare i concetti di gioco di Golden State – consegna il nostro premio nelle mani di Andre Iguodala che, lo ricordiamo sorridendo, non aveva iniziato una partita da titolare in tutta la stagione regolare.
Geniale.
TENNIS: STAN WAWRINKA
Se Wawrinka fosse un astronauta e gli Slam fossero un unico pianeta, potremmo dire che il suo 2013, con quelle due partite spaziali con Djokovic a Melbourne e New York, è stato l’anno dell’ingresso in orbita e il 2014, con il trionfo inaspettato di Melbourne, l’anno dell’atterraggio.
Compiuti i primi passi fuori dalla navicella, nel 2015, si è realizzato il definitivo ambientamento alla gravità e alle condizioni climatiche e ora Wawrinka si muove a proprio agio sul nuovo pianeta.
Il punto è: chi se l’aspettava?
Che Wawrinka fosse potenzialmente un tennista dal braccio letale lo sapevamo già da qualche anno. Aveva già raggiunto una finale a Roma nel 2008 e nel 2011 agli Australian Open aveva demolito Roddick in tre set con un parziale di 67 vincenti e 19 errori – numeri che non si vedono spesso nel tennis. Era la costanza, era la testa a far difetto rispetto ai pesi massimi della categoria.
E invece nel 2015 si è presentato un Wawrinka trasformato, più focalizzato sui grandi tornei. Negli Slam, Djokovic a parte, si dimostra il più continuo raggiungendo le semifinali a Melbourne e New York (k.o. con Djokovic e Federer) e i quarti a Wimbledon. A Parigi sfrutta un tabellone non impossibile e si presenta in finale contro Djokovic. Il serbo parte alla grande e intasca il primo set macinando il suo solito gioco fatto di colpi profondi e martellanti.
Cosa succeda in campo dal secondo set in poi solo Wawrinka lo può spiegare.

Djokovic non cala – non subito, perlomeno; è Wawrinka che gli monta sopra e non lo lascia più respirare colpendo a ogni scambio sempre più forte e sempre più profondo. Nole era a un passo dal Career Grand Slam e forse dal Grande Slam tout court, ma non crediate che la pressione sulle spalle di Stan fosse minore.
In questi casi, quando hai di fronte qualcuno che sta per compiere la storia, rimanere sereni e impassibili è molto difficile, soprattutto se quel che devi fare è colpire alla massima potenza una pallina non più grande di un pugno con un attrezzo che sì e no è grande quanto una padella, cercando di prevedere e replicare a colpi, tagli e mosse del tuo avversario con un margine di errore pressoché nullo.
Wawrinka non batte ciglio e si prende secondo e terzo set. Per darvi un’idea: a metà terzo set, il parziale dice che lo svizzero ha messo a segno 20 dritti vincenti e Djokovic solo tre. E il modo in cui Wawrinka strappa il servizio all’avversario nel terzo set è da urto: due vincenti, messi a segno uno dopo l’altro, di dritto e poi di rovescio, in corsa e all’incrocio delle righe (se non ci credete, cliccate qui).
Nel quarto set Nole vende cara la pelle giocando come meglio sarebbe difficile fare.
Ma non basta più: Wawrinka in trance agonistica su un campo da tennis è un tizio da non frequentare. E con l’ultimo rovescio lungo linea vincente – il sessantesimo winner del match – Wawrinka compie l’impresa tennistica dell’anno (e del decennio).
MOTORSPORT: SAINZ & VERSTAPPEN
Qualcuno avrebbe voluto far passare la stagione di Vettel alla Ferrari come “sorprendente”.
Noi di Tagli la consideriamo certamente degna di nota, ma trattandosi di un quattro volte campione del mondo fatichiamo a vedere dove stia la sorpresa.
Ci sembra molto più ragionevole assegnare questo premio al duo della Toro Rosso, Max Verstappen e Carlos Sainz Jr.
Se non siete fan della Formula 1, si tratta dei due piloti, entrambi esordienti, il primo a 17 anni, il secondo a 21, alla guida della Toro Rosso, la formazione italiana erede della Minardi e succursale della più titolata Red Bull. Tra i due il più talentuoso sembra essere il figlio di Jos, ex pilota anni Novanta, il quale è stato capace di totalizzare 49 punti in 19 gare, contro i soli 18 dello spagnolo.
Dato che la sorte quest’anno ha spesso detto male a Sainz - vittima di rotture e incidenti stile seconda guida Ferrari – non ce la sentiamo di scindere la coppia che ha dimostrato, se messa nelle giuste condizioni, di saper battagliare con i migliori caschi del circus.
Sia l’olandese che lo spagnolo sono stati autori di rimonte e sorpassi notevoli, e la loro attitudine alla velocità ha compensato la comprensibile inesperienza.
Il futuro è dalla loro, tanto che la Ferrari pare abbia chiesto un’opzione sul più giovane dei due in cambio della fornitura della power unit per la stagione 2016. Crediamo che il connubio tra la tecnologia motoristica Ferrari e il giovane duo possa essere esplosivo e possa rendere il prossimo campionato estremamente interessante.

Nel ciclismo avere 25 anni significa essere all’inizio della propria carriera. Fabio Aru sembra essere leggermente in anticipo su sul percorso. La sua vittoria alla Vuelta di Spagna 2015 definisce un accenno di climax per una carriera che, se rispetterà le premesse poste in questi primi anni, potrà dare al corridore sardo notevoli soddisfazioni. Ma andiamo con ordine.
Nel 2014 vince una tappa al Giro d’Italia (a Plan di Montecampione, dove Pantani nel 1998 staccò Tonkov), e ottiene il suo primo podio in una corsa a tappe, a soli 24 anni. Era dai tempi del Pirata prima e di Cunego poi che uno scalatore italiano non si rivelava così precoce nelle corse di tre settimane. Non era capitano, e questo poteva averlo scaricato di responsabilità: sia come sia, il risultato fu grandioso e forse soltanto la maglia gialla di Nibali al Tour lo nascose un po’. Il quinto posto alla Vuelta dell’estate successiva e la vittoria in due tappe avevano poi dato conferme sul valore del sardo, rendendolo uno dei protagonisti più attesi per la stagione successiva.
Il 2015 è la prima volta di Aru da capitano: nuove responsabilità e impossibilità di fare affidamento sulla protezione e sulla guida di un leader come Nibali.
L’approccio al Giro 2015 non è ottimale a causa di una malattia che lo debilita proprio prima dell’inizio della corsa. Aru dimostra grande volontà cercando di mettersi al riparo in classifica già dalle prime tappe e conclude al quinto posto al primo arrivo in salita (Abetone).
Durante il Giro emerge un’ulteriore problema: probabilmente a causa della preparazione lacunosa, il suo compagno di squadra, Landa, in salita ne ha di più. Non è che i due non collaborino, è che nel ciclismo una squadra con due teste non funziona: a un certo punto si dovrà scegliere. L’Astana non vuole abbandonare al proprio destino il sardo che però è in evidente difficolta e accumula un notevole distacco dalla maglia rosa, l’eterno Contador. A poche tappe dal termine, i due spagnoli (Contador e Landa) conducono la classifica generale e Aru è al terzo posto. Ed è qui che il giovane corridore dell’Astana compie il capolavoro: non si accontenta del terzo posto, che pur sarebbe stato gradito risultato in quanto conferma dell’anno precedente, e vince le ultime due tappe di montagna, con arrivo a Cervinia e al Sestriere. Recupera minuti ai due spagnoli e, seppur la leadership di Contador sia intoccabile, la pone sotto attacco mettendo in luce una certa difficoltà del futuro vincitore. La condotta di gara spavalda e votata all’attacco gli vale il plauso degli esperti e soprattutto la seconda posizione nella generale, ai danni del compagno di squadra.
Il capolavoro, però, si realizza alla Vuelta di Spagna. Non vince neanche una tappa, ma veste la maglia rossa per due segmenti di corsa: dall’undicesima alla quindicesima, e soprattutto nelle ultime due, cosa che gli consegna la prima corsa a tappe della carriera.
Coraggio, gambe e quel pizzico di follia che accende la passione degli appassionati. Alla soglia dei 26 anni Aru è già salito due volte sul podio rosa e ha già trionfato sulla lunga distanza di tre settimane.
Tra i grandi del ciclismo contemporaneo (Contador, Froome, Quintana) soltanto quest’ultimo può vantare una precocità simile. Ma nel 2015 il computo dei grandi giri dice uno a zero per l’italiano.
MENZIONE D’ONORE: VALENTINO ROSSI
Nove mondiali, centododici vittorie e avversari del calibro di Biaggi, Capirossi, Gibernau, Pedrosa, Stoner e Lorenzo battuti negli anni d’oro.
Ma a 36 anni, dopo essersi rotto una gamba, dopo esser stato operato a una spalla, dopo un biennio suicida in Ducati e con l'affermarsi da una parte di un Lorenzo all’apice della carriera e dall'altra del nuovo astro nascente del motociclismo Marquez, era impensabile pretendere di vedere Valentino in testa al mondiale dalla prima all’ultima gara – ahimè, non compresa – dispiegando velocità e regolarità per nove mesi di fila.
Valentino è la "sorpresa" di questo 2015 perché non è più il pilota di dieci e nemmeno di cinque anni fa. È meno rapido, soprattutto in qualifica dove ha patito spesso la nuova formula che costringe i piloti a trovare la massima prestazione in un paio di tornate.
In gara, però, rimane il solito fenomeno capace di leggere la gara prima ancora di infilare il casco. Se è impossibile stabilire quale sia stato il pilota più veloce della storia del motociclismo (Agostini? Doohan? Nieto? Rossi? Marquez?), di certo Rossi è il più bravo di tutti a vedere, a pensare le gare fin già dal box. È una dote che sta al di fuori del manuale del buon motociclista, ed è soprattutto il suo più grande talento, quello che gli permette di costruire rimonte, sorpassi e vittorie eccezionali che altri semplicemente non pensano.
Soltanto la farsa di Marquez lo ha privato della gioia di laurearsi campione per la decima volta: un mondiale che, è fuor di dubbio, si era già ampiamente meritato.
Maurizio Riguzzi (ha collaborato Umberto Mangiardi)
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