La recensione di un libro di oggi si configura anche come una buona occasione per ricordare uno degli eventi più drammatici della storia contemporanea, del cui inizio proprio quest'anno ricorre l'anniversario: la prima Guerra mondiale. Un anno sull'Altipiano, infatti, è una cruda testimonianza di un momento cruciale del conflitto lungo il fronte italo-austriaco.
Scritto da Emilio Lussu nel 1936, ma pubblicato dapprima in Francia e solo dopo la fine del secondo conflitto mondiale in Italia, il testo è la cronaca del periodo trascorso dai soldati italiani sull'Altipiano di Asiago fra il giugno 1916 e il luglio 1917: in seguito alla Strafexpedition, spedizione punitiva austriaca contro gli Italiani, la linea delle trincee si spostò proprio nell'area vicentina, costringendo entrambi gli schieramenti ad una lunga guerra di logoramento fatta di incursioni fallite, assalti mal progettati e fuochi improvvisi.
Dal lato italiano delle barricate ci sono Lussu e i suoi commilitoni, 'zio Francesco', Ottolenghi, Avellini, quelli più valorosi e tenaci, quelli meno inclini ad obbedire agli ordini, gli sprovveduti tanto incauti da affacciarsi alle feritoie esposte al tiro nemico e un gran numero di ufficiali imbevuti di una retorica decisamente fuori luogo e di nessuna forma di buon senso strategico. Il romanzo, se così possiamo definirlo, è una successione di quadri malinconici, quando non addirittura grotteschi, e ci fa percepire chiaramente il morale dei militari, oltre a darci una chiara idea della totale incapacità dello stato maggiore che avrebbe portato alla rotta di Caporetto (ottobre-novembre 1917).
Con le sue parole, Lussu si fa testimone di una guerra ben lontana dai proclami patriottici che ne alimentavano il mito in patria, differente dai sogni di gloria delle propagande, ma, al contrario, consumata fra filo spinato, armi difettose, ondate di colera e cognac. La trincea non è il luminoso campo di battaglia in cui si muovono i personaggi degli studi dell'autore, Achille, Ettore o gli eroi dell' Orlando Furioso; è, invece, un luogo inospitale, in cui le giornate trascorrono nella totale impotenza, nell'attesa di un attacco e nella speranza che la sortita sotto il fuoco nemico sia evitata.
La situazione era difficile, e ce ne accorgemmo all'alba, quando gli austriaci aprirono il fuoco. Nell'ordine che c'era stato comunicato, era scritto: "Bisogna rimanere aggrappati al terreno, con le unghie e con i denti". La frase, d'odore letterario, rendeva peraltro con sufficiente approssimazione la posizione di ciascuno di noi. Le trincee erano infatti improvvisate, sul terreno nudo, senza scavi profondi, senza sacchetti di terra, senza parapetti, Più che trincee, avevamo trovato scavi individuali, non continui, che ciascuno aveva cercato di approfondire, se non proprio con i denti, certo in gran parte con le unghie.
Lo stile è quello scarno di una notazione diaristica, cadenzato da una punteggiatura fin troppo presente: le frasi brevi e così spezzate e i capitoli brevi costringono il lettore a soffermarsi su ogni risvolto della descrizione di un incubo che sfugge all'umana comprensione, una realtà in cui le parole, più sono autorevoli, meno contano, come quelle dei generali che si guadagnano soltanto l'odio e gli ammutinamenti dei sottoposti.
La frustrazione degli animi dei soldati è sottoposta ad un climax attraverso le scelte narrative dell'autore, che ammette che molti dei ricordi della guerra e delle interminabili giornate in trincea sono caduti nell'oblio. Nella prima metà del romanzo, infatti, si incontrano, fra uno scontro e l'altro, momenti di raccolta intimità e di moderata serenità, come quello in cui Lussu e Mastini parlano degli eroi achei, raffrontando il liquore che viene distribuito in trincea in previsione dell'assalto e i simposi omerici:
- Io, - disse rimettendo il turacciolo alla borraccia, - adoro l'Odissea d'Omero perché, ad ogni canto, è un otre di vino che arriva.
- Vino, - dissi io, - e non cognac.
- Già, - osservò, - è curioso. È veramente curioso. Né nell'Odissea né nell'Iliade, v'è traccia di liquori.
- Te lo immagini, - dissi, - Diomede che si beve una buona borraccia di cognac, prima di uscire di pattuglia?
Noi avevamo un piede su Troia e un piede sull'Altipiano di Asiago. [...]
- Tuttavia... se Ettore avesse bevuto un po' di cognac, del buon cognac, forse Achille avrebbe avuto del filo da torcere...
Anch'io rividi, per un attimo, Ettore, fermarsi, dopo quella fuga affrettata e non del tutto giustificata, sotto lo sguardo dei suoi concittadini, spettatori sulle mura, slacciarsi, dal cinturone di cuoio ricamato in oro, dono di Andromaca, un'elegante borraccia di cognac, e bere, in faccia ad Achille.
Sebbene simili momenti rimangano isolati e siano costantemente sottratti all'idillio da improvvisi eventi che riportano all'attenzione la dura realtà del conflitto, procedendo si incontrano sempre più manifestazioni di astio, rabbia e delusione, che sfociano in proteste, fucilazioni solo a volte scongiurate e diserzioni. In questo quadro di progressivo incupimento, anche la breve visita a casa di Emilio viene intaccata di amarezza, perché è proprio lontano dal fronte, a contatto con l'amarezza e la disperazione delle famiglie abbandonate, che i soldati comprendono la follia della guerra, mentre, sotto le armi, non possono che combatterla. L'assurdità e il logorio della guerra emergono allora ad ogni riga, anche in quei momenti in cui, inaspettatamente, si offre un periodo di quiete:
La fine di luglio e la prima quindicina d'agosto, furono per noi un riposo lungo e dolce. Non un solo assalto in quei giorni. La vita di trincea, anche se dura, è un'inezia di fronte a un assalto. Il dramma della guerra è l'assalto. La morte è un avvenimento normale e si muore senza spavento. Ma la coscienza della morte, la certezza della morte inevitabile, rende tragiche le ore che la precedono. [...] Nella vita normale della trincea, nessuno prevede la morte o la crede inevitabile; ed essa arriva senza farsi annunciare, improvvisa e mite.
Un ulteriore punto a favore di questa testimonianza è segnato dalla scelta dell'autore di evitare celebrazioni e di creare dicotomie: è vero, gli austriaci sono la costante minaccia oltre le fosse, il filo spinato e i cannoni che risuonano fra le montagne, ma non vi sono, in Un anno sull'Altipiano, né esaltazioni della morale o dell'onore dei soldati italiani né descrizioni deformanti dei nemici, che, anzi, in un rapido incontro, Lussu scopre uguali a sé:
Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l'apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci!... Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell'ora stessa, i nostri stessi compagni.
Infine, il libro di Lussu ha il valore infinito del ricordo e della testimonianza, la gravezza della coscienza del sopravvissuto che ha provato le più grandi devastazioni del secolo scorso. Un anno sull'Altipiano ha il pregio delle narrazioni storiche di saper entrare nella storia e di uscirne portando non dati e statistiche, ma verità umane. Quello di Emilio Lussu sembra quasi un dovere: documentare per spiegare, anche quando questa scelta è più dolorosa della morte:
Ancora una volta, rimanevo solo io. Tutti se n'erano andati, ancora una volta. E ora dovevo cercare delle lettere, raccontare, spiegare. Non è vero che l'istinto di conservazione sia una legge assoluta della vita. Vi sono dei momenti, in cui la vita pesa più dell'attesa della morte.