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Un avatar per mettere a tacere le voci della schizofrenia

Da Psychomer
by Redazione on giugno 7, 2013

Dalla religione alla realtà virtuale, dall’utilizzo di immagini per distinguere la propria identità in community e forum online al noto omonimo successo cinematografico del 2009, l’avatar è diventato un vero e proprio strumento che potrà essere utilizzato per la cura della schizofrenia.

Secondo la tradizione induista, l’avatar sarebbe l’incarnazione della divinità in terra, che utilizza il corpo di uno o più esseri umani per manifestarsi ai propri fedeli. In questo senso, particolare fama hanno assunto gli innumerevoli avatar di Visnù, fra i quali si distinguono Krishna e Rama. Per affinità al concetto di rappresentazione della propria identità mediante l’utilizzo di un’altra immagine, il termine avatar è stato presto adottato dalla comunità Internet per indicare l’icona di profilo nell’utilizzo di forum e social network. Infine, la popolarità massima del termine è stata raggiunta negli ultimi anni con la produzione del film 3D Avatar che ha registrato record di incassi in tutto il mondo.

Da oggi, saranno anche gli psichiatri a familiarizzare con questo termine. Il finanziamento di due miilioni di dollari da parte di Wellcome Trust, fondazione mondiale dedicata al miglioramento della salute umana ed animale, potrebbe aiutare un recente studio a dimostrare come l’utilizzo del principio sul quale si basa la creazione di un avatar possa essere determinante nella cura di forme schizofreniche anche molto gravi. L’idea che sta alla base della ricerca è quella di utilizzare un personaggio virtuale (l’avatar, appunto) come surrogato delle “voci” che i pazienti schizofrenici sono soliti affermare di sentire. Identificando queste voci con un’immagine ben definita, secondo gli studiosi sarebbe possibile che le persone affette da disagio schizofrenico riescano a circostanziare e oggettivare il problema mediante una rielaborazione dell’icona di riferimento che diventa sempre più gestibile da parte della loro psiche.

Secondo recenti statistiche, ben una persona su cento sarebbe affetta da disturbo schizofrenico e un quarto del totale non si sottoporrebbe all’utilizzo di psicofarmaci per attenuare gli effetti della malattia. L’avatar-terapia ha ridotto notevolmente in frequenza e intensità le allucinazioni uditive dei pazienti presi in esame durante la ricerca e ben tre di questi avrebbero smesso completamente di essere soggetti a questo tipo di disturbo.

Lo studio è stato condotto da Julian Leff, professore emerito presso la UCL (University College London) e i risultati sono stati pubblicati nel British Journal of Psychiatry lo scorso febbraio. Nel dettaglio, la cura consiste nell’utilizzo di un software basato sulla tecnologia del videogioco che consentirebbe di ricostruire in 3D i personaggi descritti dai pazienti dando così loro la possibilità di dare un volto, oltre che una voce, ai loro “aguzzini” immaginari. Durante l’esecuzione della terapia, i soggetti sono stati registrati in modo che potessero riascoltare successivamente gli audio della seduta e ricordarsi i benefici che aveva apportato loro la pratica di questo esercizio. Tuttavia, in molti sono stati più volte invitati anche in maniera minacciosa dalle proprie “voci” a interrompere immediatamente la cura. Ogni seduta era della durata di 30 minuti; i pazienti presi in esame avevano tutti un’età compresa fra i 14 e i 74 anni e non avevano fatto uso di psicofarmaci.

Secondo quanto riportato da Leff, l’avatar-terapia avrebbe riscosso il doppio del successo dell’altro metodo “naturale” per la cura della schizofrenia, la terapia cognitivo-comportamentale. Tuttavia sono stati riscontrati anche insuccessi, come nel caso di pazienti affetti da più di una allucinazione; le numerose voci si sarebbero infatti sovrapposte a quella “incarnatasi” nell’avatar, vanificando i risultati raggiunti. Un effetto positivo della cura mediante avatar è sicuramente quello della diminuzione del rischio di suicidio, che per i pazienti schizofrenici raggiunge addirittura il 10% di probabilità.

Lo studio pilota è stato finanziato dal National Institute of Health Research (l’Istituto Nazionale di Ricerca Medica) e la ricerca supportata da Wellcome interesserà pazienti in Gran Bretagna, Austria e Italia.

Contenuto redatto dal team di Dottori.it


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