L'assedio a Neapolis tra il 328 ed il 326 a.C. fu condotto da un personaggio molto particolare. Quintus Publilius Philo ricevette dal senato romano l'incarico di assediare Neapolis (secondo la versione liviana Palaepolis, ma di ciò abbiamo già discusso in quest'altro post) dopo che tutte le vie diplomatiche si erano rivelate inefficaci.
In questo post cercherò di presentare questo personaggio che, al contrario di come viene presentato da Livio, non doveva essere assolutamente malvagio. Lo faremo presentandolo dal momento in cui divenne console, la carica più alta del normale cursus honorum per un cittadino romano. Cominciamo dunque dal primo resoconto che ce ne fa lo stesso Livio in Ab Urbe Condita VIII 12:
[...]
Ad un anno che fu famoso per la vittoria su così tante e tanto potenti nazioni, ed anche per la morte gloriosa di uno dei consoli e per la severità della disciplina dell'altro che, sebbene crudele, fu comunque rinomato in ogni tempo, successe il consolato di Tiberio Emilio Mamercino e Quinto Publilio Philo (i.e., l'anno 339 a.C.).
Questi uomini non ebbero tali opportunità e, inoltre, erano più preoccupati per gli interessi loro propri o del loro partito che per il Paese. I Latini presero nuovamente le armi, presi dall'ira per la confisca della loro terra, e subirono una sconfitta e la perdita del loro accampamento, nella Pianura Fenectana.
Mentre Publilio, sotto il cui comando ed auspici era stata condotta la campagna, riceveva la resa delle genti Latine i cui soldati erano lì caduti, Emilio guidò il suo esercito contro Pedum. I Pedani erano appoggiati dai popoli di Tibur, Preneste e Velitri, ed ausiliari erano giunti anche da Lanuvio ed Anzio.
Sebbene i Romani si dimostrarono superiori in alcuni scontri, pure la città di Pedum e l'accampamento delle nazioni alleate, che vi si erano associate, rimaneva ancora intatto e da affrontare, quando all'improvviso il console, saputo che per il suo collega era stato decretato un trionfo, lasciò la guerra incompiuta e tornò a Roma per chiedere un trionfo anche per sé, senza restare a guadagnarsi una vittoria. Quest'egoismo disgustò i Padri, che gli negarono il trionfo, a meno che egli non avesse catturato Pedum o ricevuto la sua resa.
Estraniatosi le simpatie del senato per questo rifiuto, Emilio da allora in poi gestì il proprio consolato nello spirito di un tribuno sedizioso. Per tutto il tempo che fu console, non cessò di accusare i senatori al popolo mentre il suo collega, dal momento che era anch'egli plebeo, non offrì la minima opposizione.
La base per le sue accuse era l'avara ripartizione del terreno ai plebei nei distretti Latino e Falerno. E quando il senato, desiderando porre fine all'autorità dei consoli, ordinó che si nominasse undictator per contrastare i Latini ribelli, Emilio, che aveva allora le fasce littorie, nominò il proprio collega dictator, dal quale Iunio Bruto fu nominato magister equitum.
Publilius fu undictator popolare, sia a causa delle sue denunce contro il senato, sia perché fece approvare tre leggi molto vantaggiose per la plebe e dannose per i nobili: una, che le decisioni della plebe avrebbero dovuto essere vincolanti per tutti i Quiriti; un'altra, che i Padri avrebbero dovuto ratificare le misure proposte presso i comizi centuriati prima che esse fossero votate; ed una terza, che almeno un censore avrebbe dovuto essere scelto dalla plebe - dal momento che essi erano giunti al punto di rendere legale che entrambi potessero essere plebei.
Il danno che fu apportato alla patria quell'anno dai consoli e daldictator superò -nel sentire dei patrizi- l'aumento di imperium che risultò dalla loro vittoria e dalla loro gestione della guerra.
Le simpatie di Livio sono dichiaratamente patrizie, quindi le sue continue stoccate all'operato di un homo novus ci rendono Publilius, se possibile, ancora più simpatico.
Sappiamo che il consolato era l'apice della carriera politica per i Romani, ma alcuni personaggi non si conformavano con l'averlo raggiunto. Publilius era tra questi, lo ritroviamo infatti poco dopo ad essere il primo plebeo a raggiungere la carica di pretore. È ancora Livio che ce na dà notizia, al passo VIII, 15:
[...]
Nello stesso anno (337 a.C.) Quintus Publilius Philo fu fattopraetor, -il primo ad essere scelto tra la plebe. Il console Sulpicius oppose la sua elezione e dichiarò che non avrebbe accettato alcun voto per lui; ma il senato, avendo fallito nella sua opposizione ai candidati plebei per le più alte magistrature, era meno ostinato al riguardo della pretura.
Come vedete, il nostro Publilius è un personaggio quasi simbolico, capace di incarnare i rinnovamenti sociali che in quegli anni avvenivano in Roma e, nonostante i suoi natali, capace di avere l'ultima parola.
Né il nostro si confece con quanto aveva già realizzato: negli anni successivi lo troviamo ancora nell'agone politico a ricoprire posizioni di rilievo. Il successivo passo di Livio, riporta che:
[...] Il console (Marcus Valerius Corvus) ottenne il trionfo (il suo terzo trionfo!) in osservanza di un decreto senatoriale, ed affinché Atilius non fosse privato della sua occasione di gloria, entrambi i consoli vennero diretti a marciare contro i Sidicini.
[12] Ma prima -essendo così stati istruiti dal senato- essi nominarono undictator per presiedere alle elezioni, e la loro scelta cadde su Lucius Aemilius Mamercinus, che scelse Quintus Publilius Philo come magister equitum (generale della cavalleria). Sotto la presidenza del dictator, Titus Veturius e Spurius Postumius furono eletti consoli.
Ma Publilius non era ancora contento. Lo troviamo ancora ad occupare importanti cariche politiche ancora nel 332 a.C., come ancora Livio riporta al passo VIII, 17:
In questo stesso anno fu fatto il censimento e vennero riconosciuti nuovi cittadini. Con questi numeri furono aggiunte le tribù Maecia e Scapzia. I censori che le aggiunsero furono Quintus Publilius Philo e Spurius Postumius. Il popolo di Acerra divenne Romano sotto uno statuto, proposto dal pretore Lucius Papirius, che garantiva loro la cittadinanza senza il suffragio.
Dunque, ricapitolando, Quintus Publilius Philo, il console Romano al quale fu affidato l'assedio di Neapolis, era un uomo della plebe capace di raggiungere il consolato già tredici anni prima dei fatti narrati nel mio romanzo. Ciò vuol dire che aveva scalato tutte le tappe che conducevano a quella magistratura, la massima prevista dall'ordinamento Romano, praticamente un Re per un anno. Successivamente fu ancora dictator, pretore (ripetiamo, il primo plebeo ad assurgere alla magistratura!), magister equitum e censore.
Mi suona terribilmente partigiana l'opinione espressa da Livio riguardo all'anno del consolato con Emilio Mamercino: lo stesso patriziato che aveva un opinione tanto cattiva del 339, ed un ricordo così sgradevole tanto del consolato quanto della dittatura di Publilius, permise che quest'uomo assurgesse ancora a cariche di tanto rilievo?
Ma la sua storia continua anche dopo l'assedio a Neapolis: per permettergli di prendere Neapolis senza che abbandonasse l'assedio, fu investito del titolo di proconsul, il primo nella storia. Fu nuovamente console nel 320 e nel 315 a.C. (il termine minimo tra due consolati successivi era di dieci anni, secondo la legge!) Se Publilius riuscì a tanto, fu certamente un uomo eccezionale; se davvero vi riuscì contro il favore del patriziato, possiamo allora paragonarlo ad un Cesare senza Gallie.
O forse no, forse le sue Gallie le ebbe, in Neapolis.