Io credo di essere un tipo tollerante. Tendo a essere quello che si dice “l’amico di tutti”, nel senso che trovo sempre qualcosa di interessante in chiunque; inoltre, ho litigato davvero e seriamente pochissime volte nella mia vita (in modo non serio invece litigo dalle sessanta alle ottanta volte al giorno, perché non posso vivere senza far finta di litigare). Ma se c’è una categoria di persone che non sopporto più di qualsiasi altra – fatta eccezione ovviamente per i fasci, dei quali non discuto neanche – questa è rappresentata da un certo tipo di musicista ‘colto’, soprattutto se compositore. Difficile caratterizzarlo in modo chiaro e definitivo, ma qualche indizio posso darlo e forse qualcuno vi verrà in mente. E’ quello che si è diplomato “prima in Strumentazione per Banda col Maestro Sante Citterio, poi in Direzione di Coro con la Signorina Elzevira Ramazzotti Romiti Pesca”; quello che ha fatto settanta concorsi di composizione (sì, anche quello indetto dalla Diocesi di Sant’Euchicchiano Vescovo e quello delle Carmelitane Scalze e Bastonate), frequentato trentasette corsi di aggiornamento e vinto quarantanove premi, tutti incorniciati e appesi in bella vista nel corridoio; quello che si scrive un curriculum di novanta righe elencando uno per uno i luoghi dove è stata eseguita la sua musica e/o gli esecutori che l’hanno suonata; quello che da ragazzo scriveva tonale ma poi, siccome gli hanno detto che la tonalità è superata, allora si è messo a scrivere dissonante; quello che da adolescente scriveva tonale, da giovane dissonante e da adulto di nuovo tonale perché ha letto sulla pagina culturale di Men’s Health che le dissonanze sono superate; quello che “il ballo liscio è comunque superiore alla Techno perché prevede la modulazione”; quello che quando sente la canzonetta di turno fa un sorriso con aria di sufficienza o storce il naso perché lui è il custode e l’ambasciatore sulla Terra di una musica divina e “non si abbassa alla volgarità del Pulcino Pio”; quello che pensa che chiunque sia in grado di scrivere un groove dei Daft Punk e non sa che invece non gli basterebbe una vita, semplicemente perché non ci capisce un cazzo (e pensando lui, ovviamente, che non ci sia un cazzo da capire); quello che pensa che la mancanza di pubblico, anche minimo (e il pubblico non è costituito da quelli che ti applaudono, ma da quelli che si ricordano della tua musica e che sentono il desiderio di riascoltarla) sia una riprova del valore della sua musica; quello che fa finta di fregarsene del pubblico; quello che parla di Brahms come se fosse qui (e invece ‘un c’è, qui, perché è morto centosedici anni fa); quello che parla di sé come se non fosse qui (ma a Lipsia nel 1729); quello che ti dice “no, ma guarda che anche io ascolto il Pop, eh…” e poi scopri che in macchina c’ha i cd di Venditti, John Denver o Amedeo Minghi (questo, a esser sinceri, più gli strumentisti che i compositori); quello che “la partitura…”; quello che non si è accorto di avere studiato diec’anni con una testa di cazzo.
Ecco, quando sto accanto a questa gente ecquì a me mi vien la pellagra.