Se non ho inteso male, il congresso non si terrà per evitare una conta. Per non correre il rischio, cioè, di dimostrarsi sul serio un partito “democratico” che valuta le diverse proposte politiche e poi sceglie a maggioranza una linea politica. Per non apparire troppo litigiosi, le decisioni vanno prese all’unanimità, o quasi. Al limite, si è disposti ad accettare un’opposizione interna quasi “concordata”, utile soltanto per fugare scenari “bulgari”. Di più non si è disposti a concedere. Con le elezioni politiche dietro l’angolo, esibire l’immagine di un partito diviso sarebbe esiziale. Per le pulizie di primavera c’è sempre tempo. Ora è preferibile nascondere la polvere sotto il tappeto e accantonare la ramazza.
Come sovente accade, si è deciso di non decidere. Rinvio sine die. Che equivale, minimo, a un arrivederci a dopo le politiche del 2013. D’altronde, il nodo è proprio la scelta dei candidati, sia che venga modificata la “porcata” di Calderoli, sia che sciaguratamente si vada alle urne con l’attuale sistema elettorale. Per cui, onde scongiurare notti di lunghi coltelli in salsa calabra, fiducia a D’Attorre, al quale toccherà gestire, di concerto con Roma, le selezioni.
Dei cinque candidati alla segreteria regionale (Nicodemo Oliverio, Mario Maiolo, Demetrio Battaglia, Doris Lo Moro e Mario Muzzì), i primi tre hanno accolto con disappunto i motivi del rinvio. Comprensibile. Perché, in definitiva, i congressi che si tengono a fare, se non per decidere tra il ventaglio delle scelte sul tavolo? Ha ragione Maiolo: ritirare le candidature, “in nome dell’unità del partito”, sarebbe umiliante per chi si è speso a sostegno di esse. L’unità del partito sbandierata come valore assoluto rimanda, pavlovianamente, a performances indimenticabili anche a distanza di anni. Esempi luminosi delle mortificazioni patite da chi, pure, ci aveva creduto. Dall’avallo alla vergogna del “concorsone” per portaborse e parenti, al quale gli allora Ds prestarono faccia, voti e nominativi da sistemare nelle strutture della Regione, allo splendido esempio di trasparenza apprezzato ai congressi dei circoli del 2009 che produssero lo “strano” risultato di una partecipazione non confermata alle successive elezioni. Com’è noto, in molti comuni il Pd non ottenne neanche la metà di quei consensi e si sprecarono i titoli sul numero di elettori inferiore a quello degli iscritti al partito. E ancora, le primarie regionali del 2010, quelle dell’accordo di Caposuvero che diede il via libera alla ricandidatura di Loiero – in cambio della deroga per i consiglieri regionali che, da statuto, non erano ricandidabili, avendo superato due mandati – e all’inserimento in lista dell’allora segretario regionale, Carlo Guccione. Quello stesso Guccione, già beneficiario del “concorsone”, che ora s’indigna per “questo ennesimo tentativo di colonizzazione” e ringhia: “la nostra regione non può essere utilizzata per consumare tentativi di baratto finalizzati alle prossime candidature del 2013 alla Camera e al Senato”.
La questione del recupero di una credibilità che è ai minimi storici è troppo delicata e complessa per pensare di poterla lasciare in mano alla classe politica responsabile dell’attuale disastro. L’amara verità è che il Pd, in Calabria, è un ectoplasma, ripiegato su se stesso e fiaccato dalle faide interne. Non riuscire a dare segni di vita nel momento di maggiore difficoltà dello scopellitismo costituisce, politicamente, un dramma. Sperare in qualche buccia di banana giudiziaria non è politica. Soprattutto se si finisce con l’incappare nel consueto vizio della doppia morale, quella che provoca dichiarazioni a raffica sugli avvisi di garanzia agli avversari politici e silenzi assordanti sulla storiaccia del concorso vinto da Valeria Falcomatà all’azienda ospedaliera “Bianchi – Melacrino – Morelli”. Politica, invece, è riuscire a proporsi come alternativa valida e credibile. Un miraggio, allo stato attuale.
Ha ragione da vendere Fernanda Gigliotti, da sempre voce critica nel Pd calabrese, che si chiede se non sia il caso di abbandonare “il Pd che non c’è”, una “casa” che, “malgrado il nome, di fatto dimostra di non volerci e di non appartenerci, e forse non ci è mai appartenuta, né mai ci apparterrà”. A dieci anni di distanza, ritornano alla mente – impietosamente e impetuosamente – le parole pronunciate da Nanni Moretti a piazza Navona (“con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai”) e ci si domanda se fossero profezia o maledizione.