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un consiglio

Creato il 13 agosto 2015 da Gaia

Negli ultimi tempi ho iniziato a fare una cosa che non credo di aver mai fatto prima in vita mia: consigliare caldamente un libro. Anzi: consigliarlo a tappeto. Mi è capitato in passato di dire a qualcuno che un tale libro mi era piaciuto, di suggerire un testo a chi stava facendo delle ricerche su un certo argomento, o di segnalare qualcosa su questo blog, ma questa volta è diverso – questa volta mi rivolgo a persone che non mi hanno chiesto niente e, senza che il discorso si presenti da sé, dico: io penso che tu dovresti leggere questo libro. Alle volte suggerisco addirittura modi per procurarselo.

In realtà, poi, le persone a cui è toccato questo consiglio sono state molte meno di quelle che mi sono venute in mente, perché chiedere a qualcuno di scoprire che quello che sta facendo è molto sbagliato non è tanto semplice. Nessuno vuole prediche e nessuno vuole essere costretto ad affrontare realtà sgradite che ha già deciso di non affrontare. Eppure non c’era persona tra familiari, amici o conoscenti a cui non fossi tentata di chiedere di condividere con me questo testo così importante: uno per una conversazione che abbiamo avuto, un altro per un pranzo che mi ha offerto, un altro ancora perché ha un figlio piccolo o si occupa di animali…

Il fatto è che tutti mangiamo, per cui la questione di cosa mangiamo riguarda tutti. Ci sono tante cose che dovremmo sapere, che in qualche modo ci coinvolgono, soprattutto in un mondo interconnesso come il nostro, in cui la decisione di comprare una merendina, per non parlare di quella di votare un certo candidato o di drogarsi, possono significare la vita o la morte per qualcuno o qualcosa dall’altra parte del mondo. In questi casi, però, il coinvolgimento è in gran parte indiretto, e basterebbe che ognuno conoscesse bene solo qualcuno di questi argomenti, e ci si dividesse le eventuali campagne. Quando si tratta di cibo, però, non ci si può sottrarre: in quanto possessori di una bocca e un apparato digerente personali e non delegabili, il dovere di sapere è personale e non delegabile.

Il libro di cui parlo, l’avrete capito, è Se niente importa (Eating animals in inglese) di Jonathan Safran Foer. Nei giorni in cui lo leggevo, per qualche motivo il mio vecchio post perché non sono vegana continuava a ricevere visualizzazioni, (e sta continuando ancora). Questo mi preoccupava un po’: alla fine l’ho riletto per verificare di non aver detto cose su cui ho poi cambiato idea.

In realtà, penso ancora tutto quello che ho scritto, con variazioni molto minori (ad esempio, ora sono assolutamente convinta che le vacche apprezzino davvero lo stare fuori – ho letto interviste ad allevatori che descrivono la loro gioia e i loro salti quando escono, e non ho più dubbi).

Non voglio entrare troppo nello specifico riguardo al saggio di Safran Foer, perché quando qualcuno riassume qualcosa si ha la sensazione di averlo già letto (o visto, o sentito) e quindi di non doversene più preoccupare, e io invece vorrei che voi lo leggeste davvero questo libro, dalla prima all’ultima pagina. Lo vorrei moltissimo, e non posso fare nulla per convincervi che non sia scrivere qui; non posso, anche se ci ho pensato, comprarne molte copie e distribuirle, così da vincere se non altro la pigrizia dei destinatari del mio consiglio – ma se voi vi fidate di me potete procurarvelo facilmente voi stessi, ordinarlo o cercarlo in una biblioteca, e se non ce l’hanno chiedere un prestito interbibliotecario o convincerli ad acquistarlo… a una biblioteca pubblica non può fare che bene averne una copia.

Se niente importa è il genere di libro che chi ha letto vuole assolutamente che gli altri leggano. È il genere di libro che cambia la vita.

Nelle primissime pagine della mia copia c’è una raccolta di pezzettini di recensioni varie (pessima abitudine anglosassone, tra l’altro – mi hai già convinto a comprarlo, lasciami in pace!). In uno di questi frammenti, l’attrice Natalie Portman dice di aver regalato una copia del libro, dopo averlo letto, a tutte le persone a cui vuole bene. È esattamente quello che volevo fare io, addirittura ordinandone a pacchi, ma temo che costerebbe troppo (e poi non vorrei che qualcuno si sentisse escluso, che considerasse il non averlo ricevuto come una dichiarazione di non-affetto da parte mia). E poi io non voglio che lo leggano solo le persone a cui io sono più intimamente legata, ma semplicemente più persone possibile. Oppure, detta diversamente, siccome io voglio bene a tutti almeno un po’, e sicuramente voglio bene anche a chi legge il mio blog, e soprattutto non voglio dovermi trovare a volere bene a persone che fanno finta di non sapere o si rifiutano di sapere cose che è responsabilità di ciascuno assolutamente sapere, cioè non voglio trovarmi a volere bene a persone cattive, ripeto il mio appello: per favore, leggetelo.

Un’altra recensione, di nientemeno che lo scrittore J.M.Coetzee, dice che chi dopo aver letto questo libro continua a consumare i prodotti degli allevamenti industriali o non ha un cuore, o è impenetrabile alla ragione, o entrambe le cose (e questo vale anche per chi ha appena letto questa frase :)).

Se niente importa merita di essere letto non solo per quello che rivela, ma anche per come lo fa: per la sua umanità, la sua fantasia, l’intelligenza estrema della scrittura, l’ampiezza della ricerca, l’uso creativo persino della tipografia – i titoli dei capitoli e la stessa struttura della pagina portano un messaggio. Il nostro è un mondo complesso, in cui il singolo e le sue decisioni annegano in un mare di cose che lo riguardano e che lui non sa, ma spesso si arriva un punto in cui sapere è molto facile per chiunque, e non voler sapere è una colpa. Per esempio, se siete arrivati a questo punto del mio post e avete deciso di ignorare il mio consiglio anche nel senso più lato di invito a informarvi, da adesso siete colpevoli di quello che non sapete (sul cibo che mangiate).

(Come, ovviamente, saprete che le migliaia di morti in India per il caldo e il clima impazzito e i profughi ambientali e la scienziata che piange perché gli oceani sono distrutti c’entrano anche con i nostri viaggi in aereo e la carne che mangiamo e tutti i prodotti che compriamo e l’energia che consumiamo, e ora che lo sapete non potete più lamentarvi del caldo)

Ovviamente ci sono altri libri sullo stesso argomento, e potrebbero anche essere migliori. L’importante è informarsi.

L’obiezione principale che potreste muovere al saggio di Safran Foer, in particolare, è che è molto America-centrico, e che in Italia le cose sono diverse. Ci ho pensato, e sono arrivata alla conclusione che non è così. La pesca è la stessa dappertutto, perché è un’attività globale e comunque le tecniche sono ricorrenti ovunque. I macelli americani potranno essere leggermente peggiori di quelli italiani, ma le logiche dell’allevamento industriale non possono che portare agli stessi risultati ovunque vengano applicate, così come la produzione in una catena di montaggio può essere più o meno usurante e alienante, ma non può non esserlo per niente. Se le norme in Italia e in America sono diverse, questo non ci dice nulla sulla loro applicazione – e sappiamo che anche in Italia esistono veterinari compiacenti, controllori corrotti, e soprattutto tante persone che non rispettano le leggi.
L’America, inoltre, ha a disposizione spazi enormi per il pascolo di vacche, maiali, pollame… ma noi no, per cui la situazione di molti dei nostri animali è pure peggiore. Infatti, applicare certe idee qui è più difficile ancora che negli Stati Uniti. Gli animali, in Italia, sono rinchiusi. L’ho girata tanto, l’avrete girata anche voi: quante volte, passando da qualche parte alta montagna esclusa, avete visto una mucca? Le mucche sono nei capannoni, le galline sono dietro le reti, i maiali sono nei recinti, i cani sono negli appartamenti ma almeno i padroni li portano fuori a pisciare.

In Italia ogni tanto Report, o se non ricordo male Presa Diretta, o altri, tirano fuori qualche scandalo legato alla carne o al pesce e ai frutti di mare. L’impostazione è sempre estremamente antropocentrica (“stiamo dando da mangiare ai nostri bambini dei vitelli rachitici imbottiti di medicine rinchiusi agonizzanti in un recinto, poveri bambini!!”), ma ce n’è abbastanza per arrivare alla conclusione se non altro che anche noi abbiamo parecchi problemi. Se ci fate caso, anche quando vengono mostrate immagini di allevamenti “virtuosi”, raramente gli animali sono in libertà e raramente fanno qualcosa che non sia mangiare da dietro una sbarra o rigirarsi tra tre pareti di cemento.

Tra l’altro, la carne che si mangia in Italia non necessariamente è prodotta qui. Carne, uova, latticini vengono da chissà dove – dalla Germania, dall’Europa dell’Est, da tutto il mondo, e poi sono rivenduti con informazioni insufficienti o lavorati e addirittura presentati come prodotti locali (persino il prosciutto di San Daniele, produzione di nicchia e almeno teoricamente molto controllata, non è fatto con maiali di San Daniele). Non molto tempo fa una puntata di Report mostrò che le oche, con le cui piume sono confezionati prodotti venduti in Italia, vengono regolarmente spiumate vive tra atroci sofferenze. Al solito, la Monclair non si arrabbiò con i fornitori ma con la Gabanelli che li aveva sputtanati.

Infine, il problema del consumo di risorse per l’allevamento è molto, molto ben visibile qui da noi. Un giorno un amico mi ha fatto un’osservazione molto giusta: parlavamo di tutte le colture che si vedono in giro per il Friuli e lui ha detto che non sono nemmeno cose che mangiamo. Il vino non si mangia, ma quello è il meno. Il Friuli Venezia Giulia è sostanzialmente una distesa ininterrotta di campi di pannocchie. Fa schifo. Sono pannocchie industriali, tutte uguali, ritte su terreni morti, senza alberi intorno, irrigate dall’alto e concimate e diserbizzate e pesticidizzate come se non ci fosse un domani. Un altro amico un giorno mi ha detto, storcendo il naso: “Hai presente com’è dalle mie parti? [Codroipo] Blave, blave, blave, blave, soia, blave, blave, blave…” La figura dell’allevatore di merli del Nord Est che spruzza veleni sui suoi campi di mais e poi si lamenta perché gli muoiono i merli per i pesticidi, con totale indifferenza riguardo all’incoerenza di dire prima una cosa e poi l’altra, mi sembra così emblematica che penso che la metterò in un libro.

E dove va tutto questo mais? Vi garantisco che noi polentoni non mangiamo davvero così tanta polenta. Va negli impianti a biogas, probabilmente andrà anche nel mater-bi, e va a sfamare gli animali.

Abbiamo ridotto la nostra terra a un deserto perché per soddisfare i nostri capricci dobbiamo imprigionare degli animali e dargli da mangiare in quantità industriali una pianta che neanche dovrebbero mangiare, e chi si rifiuta di fare così finisce fuori dal mercato.

Il fatto è che mangiare prodotti animali in grandi quantità e quindi pagandoli poco è incompatibile con l’ambiente e con il benessere delle bestie, punto. Qualcuno potrebbe obiettare che basterebbe essere di meno su questo pianeta. Vero, e di questo Safran Foer non parla se non indirettamente, ma è anche vero che in un certo senso ha ragione a non farlo: il problema non è solo e non è tanto che gli americani sono molto numerosi, ma piuttosto che consumano prodotti animali in quantità pro capite che non hanno precedenti nella storia dell’umanità e che non fanno neanche bene alla salute. Io non penso che sia giusto rinunciare a mangiare qualche prodotto che richiede più risorse perché ci sono persone che vogliono famiglie numerose. Sarebbe meglio vivere un po’ più larghi, con la compagnia di altre specie, che essere in dieci miliardi a mangiare soia in un deserto. Non penso nemmeno, però, che sia giusto costruire un sistema che non è finalizzato a sfamare le persone ma a vendere un cibo che consuma molte risorse facendolo pagare come se fosse un cibo che consuma poche risorse, cioè sostanzialmente facendolo pagare poco. La carne a buon mercato è il problema, non la carne in sé. A seconda di quante persone ci sono nel mondo, dello stato dell’ecosistema e del valore che si dà al non umano si potranno consumare più o meno risorse pro capite, ma in nessun caso la carne e il pesce dovrebbero essere consumati con la leggerezza con cui lo si fa oggi e pagati così poco. Produrli rispettando gli animali richiede in ogni caso cura e fatica, e nel momento in cui si eliminano la cura e la fatica per abbassare il prezzo si elimina anche il benessere dell’animale.

Comunque, non c’è nulla che io possa dire sull’argomento in questo senso che non sia già trattato nel libro di cui vi sto parlando, per cui, di nuovo: leggetelo. Quello di cui vorrei invece parlarvi è di me, e di come sto cercando di rispondere alla domanda: va bene, e adesso?

Safran Foer mi ha convinto, o meglio: ero già convinta di quello che dice prima ancora di sapere che lo dice, condivido quasi totalmente le sue parole, pur con alcune riserve qua e là, e il suo libro ha avuto l’effetto di ricordarmi che quando si tratta di cose importanti non sono ammesse pigrizie e non sono ammesse deroghe. Il problema che si presenta una volta preso atto di tutto questo è decidere come comportarsi d’ora in poi.

A casa mia non mangio praticamente mai pesce e praticamente mai carne, anche se ogni tanto qualcuno me la regala (altro problema: i regali). Le uova sono delle mie galline e per quanto riguarda i latticini la situazione non è ideale, ma almeno non compro più latte industriale e i formaggi sono senz’altro locali, quando non proprio di malga. Probabilmente posso eliminare anche l’unico pesce che ogni tanto consumo, cioè le acciughe, e per quanto riguarda la carne ne posso fare a meno, oppure cercare produttori locali che godano della mia fiducia, e qualcuno ne conosco già.

Mi sono accorta, però, che non basta. Il problema non è quello che faccio io, ma quello che fanno gli altri con la mia complicità. Io voglio impedire che la mia bocca e la mia pancia siano usate come scusa per sostenere gli allevamenti o la pesca industriale. Ma come?

La risposta ovvia sarebbe: diventa vegetariana o vegana. Il fatto è che io, come ho già detto, non voglio diventare vegana. Non considero sbagliato uccidere gli animali come fatto in sé, e comunque per vivere dove vivo, cioè sulle Alpi, e consumare localmente, il che significa controllare quello che mangio ed essere più indipendente, non posso non consumare prodotti animali. Gli animali convertono in cibo per noi la biomassa di zone in cui sarebbe impossibile coltivare, come i pascoli di alta montagna. Inoltre quei pascoli contribuiscono alla biodiversità: per quanto io sia in polemica costante con i montanari che vivono l’avanzata del bosco come una sconfitta personale, rimane il fatto che ci sono specie animali e vegetali che hanno bisogno del pascolo e non possono vivere nella foresta. In montagna non è possibile produrre l’olio d’oliva, e quindi il burro rimane il miglior ingrediente locale per soffritti e dolci. Certo, si potrebbe produrre olio di noce, ma non credo sia altrettanto buono e comunque quanti noci dovremmo piantare? Si può importare un po’, ma importare tutto rende dipendenti dall’esterno, e nel campo alimentare si tratta di una dipendenza particolarmente pericolosa. Si possono coltivare i fagioli come fonte proteica, ma anche qui si pone il problema della terra che è poca, spesso ripida e sassosa, e quindi non garantisce chissà che raccolti, e soprattutto degli animali selvatici. Da queste parti, per lo meno, i caprioli fanno colazione con i nostri fagioli. Da quando sono qui, i danni dei caprioli alle coltivazioni sono stati uno degli argomenti di conversazione più ricorrenti in assoluto.

La gente di montagna ha bisogno degli animali per il latte, le uova, la carne, il letame, e forse un giorno, quando il petrolio sarà più caro, persino per tagliare l’erba o per il trasporto. Per non parlare della lana che ci serve per scaldarci: non è locale, ma sempre lana è. Io non posso vivere in montagna, mangiare quello che mi dà, interagire con i suoi ecosistemi, sopportare le sue temperature, ed essere vegana.

L’alternativa è diventare quello che Safran Foer chiama un “onnivoro selettivo”. Il problema, come lui sottolinea, è che dal punto di vista sociale un onnivoro selettivo rompe le palle pià di un vegetariano. Se qualcuno ti invita a cena, tu puoi dire: non mangio carne e pesce. L’ospite si attrezzerà per preparare qualcosa con il formaggio, magari, o ti chiederà di aiutarlo portando dei piatti.

Oppure puoi dire: mangio solo carne e pesce prodotti in maniera sostenibile. E a quel punto il tuo ospite cosa deve fare? Andare a comprare quello che dici tu dove dici tu, magari pagandolo il doppio? Andare a pescarti un pesce?

C’è poi il problema, concordando con Safran Foer, delle nonne. Io e mia sorella abbiamo passato dei periodi da vegetariane, ma non è stato facile in famiglia. Ricordo una volta in cui mia nonna, quando ci siamo insospettite per dei pezzettini rosa in un piatto, ha ammesso che c’era del prosciutto, ma solo “per colorare un po’”.

Siccome io non penso che uccidere un animale sia un male assoluto, mi trovo a dover soppesare da un lato il poter condividere un pasto con persone a me care che comunque non cambieranno mai abitudini né manterranno abitudini sbagliate per chissà quanto a lungo, perché sono anziane, e dall’altro un principio complesso. Quando si tratta del non andare in macchina, il mio spostamento riguarda soltanto me stessa e non interferisce né con lo spostamento altrui né, salvo casi rarissimi, con la mia capacità di partecipare a eventi a cui vengo invitata. Il cibo però è diverso, perché non sono sempre io a prepararlo. Essere vegani, o vegetariani, o astemi, è un atto sociale, perché anche se non si impone la propria scelta agli altri li si costringe a riflettere, e alle volte anche a modificare i propri comportamenti. Dover pensare a come servire qualcosa di diverso da vino e birra a una festa, ad esempio, mette di fronte alla propria incapacità di pensare a una serata senza alcol. L’aumento della quantità di vegetariani e vegani ha cambiato i menù di moltissimi ristoranti in tutto il mondo, non tanto perché i loro numeri sono alti, ma perché un vegetariano può rifiutarsi di andare a mangiare in un locale che non offre qualcosa anche a lui, e quindi condizionare un’intera compagnia.

Al tempo stesso, però, le scelte drastiche sono più semplici delle scelte moderate. Tutti ti chiedono di essere moderato, ma è solo per fregarti. Sperano che tu sia un moderato che fa quello che dicono loro. È molto più difficile gestire la decisione di fare qualcosa solo se si verificano una determinata serie di circostanze, piuttosto che la decisione di non farlo mai. Se dici ‘preferirei non fare questo, ma sono disponibile a farlo’, è probabile che finirai per fare quella cosa ogni volta che sarà la scelta più comoda, e quindi la tua astensione non avrà nessun valore. Anche per questo ho smesso di andare in macchina: potevo decidere di andare solo ogni tanto, con certe persone, in certe situazioni, ma allora in base a cosa avrei detto di no agli altri? Le stesse persone che ora mi chiedono eccezioni e moderazioni, avrebbero sicuramente trovato da sindacare su ogni mia scelta specifica. Molto meglio dire: non ci salgo, lasciatemi stare.

Ma io vorrei un mondo senza automobili, obietto all’automobile in sé, mentre non obietto alla carne in sé (tra l’altro, visto quanti animali sono uccisi sulla strada, ogni tanto mi chiedo se i vegani non dovrebbero per coerenza andare solo in bicicletta.

E c’è una complicazione ulteriore: il problema non sono solo la carne e il pesce. Se così fosse, sarebbe relativamente semplice. Ma non c’è nessuna differenza morale tra mangiare carne prodotta industrialmente e mangiare uova e latticini prodotti industrialmente. Tutti causano le stesse sofferenze e hanno lo stesso impatto ambientale. Inoltre, come non mi stanco di ripetere, siccome la produzione di latticini e uova richiede in qualche modo l’uccisione o peggio di gran parte dei maschi della specie, sostanzialmente il vegetariano è solo di poco meno responsabile dell’uccisione di animali di quanto lo sia un carnivoro (l’unica differenza, ovviamente, sono gli animali allevati esclusivamente per la carne; ma se tu vuoi latte qualcuno dovrà mangiarsi il vitello).

Potrei quindi mantenere una coscienza relativamente pulita evitando di acquistare carne e pesce e convincendo gli altri a non offrirmeli, ma il problema si riproporrà uguale ogni volta che ordinerò un cappuccino al bar, comprerò un pasticcino al panificio, e addirittura quando mangerò un gelato. Safran Foer, pur parlando anche di latte e uova, alla fin fine sembra ricondurre tutto alla questione della carne. Certo, ci sarebbe la possibilità di comprare latte e uova biologici, ma io mi fido poco. Come fanno a far produrre le uova alle galline tutto l’anno, ad esempio? E gli altri prodotti animali? Le scarpe, le borse, i piumoni, la lana? Non dovremmo preoccuparci di tutto? Di sicuro non voglio vestirmi di plastica – ma verificare è difficile.

Per me le rinunce non sono un problema. Anzi: ogni cosa di cui ho fatto a meno finora mi ha migliorato la vita. Tutti si stupiscono quando dico che vivo senza televisione – mentre io mi sento liberata da un ingombro, una tentazione impigrente, un frastuono inutile. Ci sono poche cose così avvilenti come entrare per pranzo a casa di qualcuno e trovare la televisione accesa accanto al tavolo. Della macchina, neanche parlarne: sono così felice di non dovermi mettere in tutte quelle situazioni in cui si mette chi sale su un’auto altrui da sperare di poter andare avanti tutta la vita così. Ultimamente ho deciso di non mettere più neanche i tacchi, con la parziale eccezione di quei pochi bassi e comodi che possiedo già, e nemmeno me ne sono accorta. Non provare le droghe, poi, di nessun tipo tranne caffè e alcol (con moderazione), mi ha protetta da rischi che rabbrividisco solo a immaginare. Per quanto riguarda il mio quasi vegetarianesimo a casa, mi ha già permesso di risparmiare parecchio.

Dirò di più: non penso che durerà ancora molto a lungo, ma uno dei più ricorrenti drammi dell’era in cui sono cresciuta è l’eccesso di scelta. Dico dramma perché la sua conseguenza inevitabile, cioè la sensazione cronica di aver scelto male, rovina letteralmente la vita. Per non parlare del tempo perso a scegliere, o dello stress. Limitare le scelte dicendo no a qualcosa, no e basta, è un immenso sollievo. E ‘no’ non perché qualcuno me lo impone, perché aderisco a qualche pacchetto predefinito di convinzioni: ‘no’ perché ci ho pensato e non voglio, in base alla mia esperienza, in base alla mia morale, alle mie osservazioni e alla mia natura. Questo ‘no’ è una libertà, un contributo, una liberazione.

Ma non sempre si arriva a un ‘no’ totale. Dire no in assoluto a certi cibi per me è una violenza fatta al mio corpo e alla mia cultura, una violenza di cui è colpevole chiunque abbia ridotto la produzione di questi cibi tradizionali a tortura legalizzata.

Non so cosa farò con i prossimi pasti a cui sarò invitata. Dato che mi verrà chiesto di nuovo se sono vegetariana, ho pensato che la risposta più onesta che potrei dare è: “mangio carne e pesce solo se posso conoscere chi l’ha prodotto e fargli delle domande.” E, sottinteso, ritenermi soddisfatta delle sue risposte. Non è un granché, me ne rendo conto, e farà sbellicare parecchia gente. Forse chiederò semplicemente menù vegetariani, tenendomi la spiegazione completa per chi avrà voglia di ascoltare senza prendere in giro. Sicuramente, cercherò il piatto vegetariano ogni volta che andrò a mangiare fuori, sicuramente starò attenta a dove possono essere annidati i prodotti animali, ma non è questa la grande rivoluzione a cui mi ha portato il saggio di Jonathan Safran Foer.

Adesso però il post è davvero troppo lungo, e quindi rimando l’ultima parte a un’altra volta.

Leggete Se niente importa :)


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