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Un e-book è per sempre? – di Nicola Losito

Creato il 02 luglio 2012 da Nictrecinque42 @LositoNicola

Se si parlasse di un diamante, come insegna una famosa pubblicità, la risposta sarebbe scontata.

Nel caso degli e-book – un prodotto della tecnologia moderna – la risposta non è altrettanto univoca. Ci sono già tantissimi brutti libri su carta e ci sono, a mio parere, così tanti e-book spazzatura che nemmeno il loro basso costo di vendita ne giustifica la presenza sul mercato. In altre parole, gli e-book non sono diamanti, o almeno non tutti lo sono, quindi verrebbe da rispondere che un e-book non è per sempre. Allora perché molte case editrici famose si sono buttate a capofitto su questo nuovo business? La risposta è facile. Il rischio è minimo e, se si azzecca un best seller, il guadagno è ottimo. Per uno scrittore alle prime armi, a ben vedere, rappresenta poi l’unico modo per pubblicare un libro senza svenarsi economicamente.

Dunque, viva gli e-book.

A questo c’è un però.

In Italia gli e-book hanno ancora difficoltà a prendere piede, perciò per uno scrittore esordiente che ha deciso di pubblicare su Internet è ancora più difficile di prima farsi conoscere e apprezzare. La sua opera in formato elettronico si disperderà nel mare infinito del web e tanti saluti ai suonatori. Se a questo si aggiunge che i possessori di e-reader in Italia non sono tanti e quei pochi che ancora amano leggere preferiscono i libri su carta, si capisce che un e-book ha la stessa probabilità di successo di una vincita miliardaria al lotto.

Come può, dunque, uno scrittore sconosciuto sperare di ottenere fama e soldi attraverso il web? A parte la fortuna – il classico colpo di culo – (la bravura di un autore conta poco se nessuno lo legge!) un valido aiuto è il passaparola fra i webnauti che hanno ricevuto l’e-book in regalo e gli è piaciuto: saranno loro a consigliarlo agli amici e gli amici lo consiglieranno ai loro amici in un crescendo esponenziale di pubblicità gratuita. Un’altra invenzione intelligente è la possibilità, prima dell’acquisto, di leggere gratuitamente un capitolo dell’e-book per testarne la bontà. C’è, infine, quella che io considero la trovata geniale di questi ultimi tempi: lo spot pubblicitario su You Tube in cui sono gli stessi autori a raccomandare il loro e-book trasformandosi essi stessi in attori. Se lo spot è fatto bene e colpisce l’immaginazione dei webnauti, arrivare a migliaia, milioni di visualizzazioni non è poi difficilissimo e saranno in tanti quelli che acquisteranno l’e-book in promozione. Se poi il libro in questione è scritto bene, il successo è assicurato.

È questo il caso di Matrimoni bolliti, il primo e-book di Nora O’Dublin. Se t’interessano ulteriori informazioni clicca sull’immagine qui sotto:

Matrimoni Bolliti4

Foto di Jacopo Farina

Tempo fa un’amica mi aveva segnalato questi due spot:

Un e-book è per sempre? – di Nicola Losito
Un e-book è per sempre? – di Nicola Losito

Elisabetta Francia è la regista dei due filmati

Li ho guardati, mi hanno fatto sorridere parecchio e mi sono incuriosito così tanto che ho scaricato gratuitamente il primo capitolo del libro e mi sono attivato subito per conoscere la misteriosa autrice dal volto coperto da un velo nero che lo sta presentando a un pubblico non molto attento. Ho poi comprato l’e-book e me lo sono letto velocemente.

Dico subito che a me Matrimoni bolliti è piaciuto e lo recensisco volentieri in questo mio ultimo post prima della chiusura estiva del blog.

****

Silvia, Federico e il piccolo Alberto sono i componenti di una famiglia sull’orlo di una crisi di nervi, crisi che sta portando i due coniugi a vedere il divorzio come unica soluzione ai loro problemi di coppia.

Federico è un architetto in carriera che da tempo sta aspettando che alcuni suoi importanti progetti vengano approvati e nella sua testa non c’è posto per altri pensieri e men che meno per le sacrosante esigenze della sua famiglia.

Silvia, editor di IntoMedia, una piccola società informatica che lavora per siti internet, non ama particolarmente l’attività che sta svolgendo però, al momento, non ha alternative migliori. L’ambiente di lavoro (un capo nevrotico, due colleghi maschi sempre pronti alla battuta salace e a volte cattiva sulle colleghe, tutte più o meno con una vita privata non proprio esaltante) si presta a ipotizzare fughe dalla quotidianità per trovare altrove (per esempio su internet) quelle soddisfazioni che il vissuto reale le nega.

Questo è il contesto della vicenda, ma non spaventatevi, in Matrimoni bolliti non ci sono lagnosità o lacrimevoli situazioni da tragedia greca: troverete, invece,  l’ironia allo stato puro del divertissement letterario reso celebre anni fa da Achille Campanile. Il romanzo è una rivisitazione intelligente di commedie viste mille volte al cinema o in TV ma che Nora O’ Dublin con la sua scrittura brillante e senza tanti fronzoli intellettualistici ha saputo far rivivere con un estro e una sagacia sorprendenti per un’autrice quasi esordiente.

In Matrimoni bolliti non c’è solo ironia e umorismo. Nora condisce le sue pagine con acute riflessioni sulla famiglia, sui comportamenti degli esseri umani nel privato e nella società, donandoci uno spaccato realistico del mondo di oggi, un mondo in cui i personaggi sono riconoscibili perché rappresentano una parte o un tutto di noi stessi. Silvia potresti essere tu, cara amica che mi stai leggendo, Federico potrei essere io. E allora si finisce per ridere/sorridere a denti stretti…

Ho avuto la fortuna di conoscere di persona Nora O’Dublin e siamo diventati amici. In pro di questo ho ottenuto da lei il permesso di pubblicare nel mio blog quello che io ritengo uno dei capitoli più riusciti del suo e-book e di questo la ringrazio di cuore.

Si tratta di un brano un po’ lunghetto, ma vale la pena di leggerlo, anche a puntate.

Buon divertimento e arrivederci a Settembre.

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Rissa di Natale

   Al calar del sole del 24 dicembre, i piatti di antipasti e gli aspic di gamberetti saranno già disposti artisticamente in salotto, mentre i tacchini ripieni, le terrine di paté e i vol-au-vent al salmone compariranno più tardi sopra la credenza dietro il tavolo da pranzo, apparecchiato come in una natura morta del seicento. Melograni infiocchettati, candele dorate, centrotavola di fiori secchi composti da mia suocera, bicchieri di cristallo, piatti e piattini intonati: è questa la scenografia destinata a fare da sfondo a una cena infinita, che si protrarrà fino a quando, dopo aver servito cappelletti e capponi, la madre di Federico entrerà in sala con un semifreddo flambé, esclamando con aria rapita: “Ecco il mio vero capolavoro!”

La battuta quindi passerà a me. Un grido di dolore uscirà dalla mia bocca contratta in una smorfia sconsolata: “Non vuoi proprio darmi la ricetta del semifreddo?”, facendola gongolare di gioia.

Lei allora – è già tutto previsto – risponderà: “No, Silvia, la ricetta del semifreddo è il mio unico segreto. Non la confesserei neanche sotto tortura!”

L’ultima battuta sarà la mia: “Peccato, è il semifreddo più buono del mondo!” E poi calerà finalmente il sipario, mentre io conterò i minuti che ci separano dallo scambio dei regali e, finalmente, dal ritorno verso casa.

Mia madre Vittoria detesta la madre di Federico, e fa di tutto per evitare il solito invito al cenone. Telefona in genere la sera prima, inventando una scusa. Mi chiedo quale sarà quella di quest’anno, visto che non ha il coraggio di ammettere schiettamente la verità: mia suocera le sembra una persona di cattivo gusto. Perché Vittoria detesta candelabri e centrotavola, e indossa solo delle tonache nere disegnate dagli stilisti giapponesi, sotto le quali si intravede la sua sottilissima figura, nutrita di farro, riso integrale, malto e cereali biodinamici, tutti gentilmente offerti dal secondo marito. Che deve averla sposata per portarla alle cene di lavoro e come accompagnatrice ufficiale nei suoi viaggi, sempre di lavoro, all’estero.

Vittoria purtroppo è perfetta: mai una caduta di stile, una gaffe o una parola di troppo. Si ritiene addirittura la più incantevole delle madri, ma non sa che avrei preferito essere la figlia della donna barbuta, se solo fosse stata più affettuosa di lei.

Per fortuna adesso abita a Roma e la vedo una volta all’anno. Quando ci sentiamo al telefono, non mi chiede: “Come stai?”, ma “Quanto pesi?”, ed è arrivata persino a mandarmi delle scatole di Glucomanno per dimagrire: “Devi provare questa meravigliosa pianta giapponese! Produce un gel nello stomaco che ti fa passare la fame. Prendi tre pastiglie al giorno, prima di mangiare!”

Comprare qualcosa e spedirtela col DHL è il suo modo di comunicare col mondo, e saper scegliere il regalo perfetto, adatto a chi lo riceve, è la massima espressione di coinvolgimento emotivo che Vittoria riesce a dimostrare in una relazione.

Quest’anno mi ha promesso che prenderà un aereo il 24 e arriverà da noi nel pomeriggio. Ma alle dieci del mattino suona il telefono.

È lei: “Silvia, devo darti una brutta notizia! Ieri notte Lillo – il suo adorato bulldog francese – non riusciva a respirare, sembrava quasi che tossisse, e l’abbiamo portato dal veterinario. Forse è una polmonite e deve prendere gli antibiotici!”

“Adesso anche i cani prendono gli antibiotici?”

“Sì, se sono malati, sì! Lillo dovrà fare anche delle flebo, non ho il coraggio di vederlo con un ago nelle vene!”

“Allora oggi non vieni?”

“Tesoro, non me la sento di lasciarlo da solo, ma ti ho già spedito un pacchetto pieno di cose bellissime per Albi!”

“Grazie mamma, non dovevi disturbarti” rispondo malamente e le tiro il telefono in faccia.

Sono ancora in pigiama e Federico ha avuto l’ottima idea di andare a lavorare: sta preparando un concorso sui grattacieli e deve produrre “nuove idee attorno al concetto di densità verticale”. La vigilia di Natale sembra il momento in cui raggiunge la maggiore intensità di concentrazione, soprattutto se a casa ci siamo io e suo figlio.

Gli telefono per dirgli che il cane di mia madre ha la tosse e Vittoria non può partire. Federico, quando è in studio, ascolta sempre molto distrattamente quello che gli dico, e in genere risponde con la prima cosa che gli viene in mente, mentre continua a lavorare al computer.

Adesso infatti se ne esce con: “Mi dispiace che abbia la tosse”.

“Federico, hai capito chi ha la tosse?”

“Tua madre, no?”

“No, ce l’ha il cane!”

“Ah… e allora Lillo non viene?”

“Ti sembra sensato che Vittoria telefoni per dire che Lillo non verrà al cenone? È lei che stasera non ci sarà! Lo dici tu a tua madre?”

“Silvia, con quello che ho da fare! Chiamala e dille che arriviamo alle otto. Ti passo a prendere alle sette, fatti trovare pronta!”

Federico sbatte giù il telefono senza darmi la possibilità di replicare. Non mi sarebbe dispiaciuto chiedergli, per esempio, perché dà così per scontato che se ci metto due minuti a scendere quando stasera, alle sette e mezza, suonerà il citofono mezz’ora dopo che io Alberto ci siamo preparati, sarò io a essere in ritardo, e non lui.

****

Federico citofona, appunto, alle sette e mezza e partiamo a cento all’ora verso la casa di sua madre. Riesce per fortuna a trovare subito parcheggio di fronte, e ci infiliamo trafelati in ascensore. Ma quando esco con Alberto in braccio, inciampo in qualcosa che prima non c’era. Mio marito mi afferra perché non rotoli a terra. Recupero l’equilibrio e mi guardo intorno: le stramaledette decorazioni natalizie di mia suocera sono strabordate fino al pianerottolo, perché oltre alla solita corona di bacche rosse e fascine, adesso c’è un alberello addobbato da angioletti tutti bianchi che devono esserle costati un occhio della testa, e che stavano per costarmi una caviglia.

Passo Alberto a Federico e suono il campanello. Lei apre subito la porta con un gesto deciso: “Bene arrivati! Siete in ritardo, ma meglio tardi che mai!”, e ci fa strada fra i panettoni e i quintali di torroni seminati in giro nei vassoi.

Mumy, come tutti devono chiamarla perché Federico da piccolo pronunciava mamma così, è pettinata da quarant’anni nello stesso modo, con un piccolo chignon morbidamente appoggiato sopra i capelli cotonati a forma di cofana e tinti di biondo. Solo che adesso lo chignon non è più dei suoi capelli, ma si è trasformato in un piccolo toupet fissato con delle forcine di cui Mumy controlla continuamente la tenuta.

Il risultato è una specie di tic: una delle sue mani sale vezzosa verso la crocchia posticcia e la palpa con un movimento rapido e sicuro. Se tutto è a posto, scatta una specie di sorriso meccanico a conferma della riscontrata perfezione dell’acconciatura. Se invece, com’è successo una volta sola da quando la conosco, scopre che il toupet sta per staccarsi, Mumy si mette a urlare: “Scusatemi, torno subito!”, e fugge in bagno per rimediare alla catastrofe della forcina perduta.

Sandro, il padre di Federico, è invece un santo perché ha sopportato – e amato – sua moglie per quasi quarant’anni, anche se avrebbe fatto meglio a mandarla a lavorare in fabbrica, invece di tenerla in casa a decorare teiere col découpage.

Ci viene incontro trafelato: “Ciao Silvia! Ma com’è cresciuto Alberto!”, e gli dà un grosso bacio sulla guancia. Meno male che c’è lui a stemperare il tasso di acidità della famiglia, che raddoppia quando arriva Chiara, la sorella di Federico, che detesta la madre con la stessa intensità di quando era una ragazzina e Mumy le regalava dei golfini di angora viola: “Mettono i tuoi occhi in risalto! Dovresti indossare sempre qualcosa di viola!” Chiara li buttava via e ha passato il resto della vita a cercare di essere diversa dalla madre.

Anche la casa dove adesso abita con Massimo, suo marito, è il contrario di quella di Mumy. Pareti e pavimenti completamente bianchi, senza quadri, ninnoli o gingilli di troppo. Il tavolo, le seggiole e il divano sono gli unici mobili che compaiono sullo scenario glaciale del loro appartamento: un igloo dove si mangia in punta di chiappe, oltre che in punta di forchetta, perché quando Chiara e ci invitano a cena, rimangono per tutto il tempo seduti diritti sulle sedie, come se li avesse trapassati una scopa da parte a parte.

Da loro non ci voglio più andare, ma anche Federico è stufo dell’igloo: temperatura emotiva a meno venti. E stasera rischiamo di arrivare a meno trenta, perché quando Chiara e Mumy si incontrano, si scatena regolarmente una piccola glaciazione.

Sandro prende in braccio Alberto, mentre sentiamo una scampanellata nervosa. Mumy si precipita verso la porta: “Eccoli! Sandro, vado io ad aprire!”, strilla eccitata, perché sono sicura che vuole far vedere alla figlia l’alberello con gli angeli bianchi.

Li assale immediatamente: “Carissimi, finalmente siete qui! Guarda Chiara, ho preparato un albero di Natale anche per te! Dimmi se ti piace, è così essenziale!”, e dice essenziale con un tono di voce da urto di vomito.

Sembra infatti che manchi poco al verificarsi del fenomeno: Chiara indietreggia sull’uscio come se qualcuno l’avesse colpita alla bocca dello stomaco. È vestita di nero, con un cappottino taglia 38 che starebbe bene solo a un manichino, e ha i capelli mechati di fresco – ma non dal parrucchiere di Cristina – raccolti in una specie di nodo raffinatissimo fatto dei suoi stessi capelli.

Entra in casa avanzando lentamente, come se non fosse sicura di volerlo fare, seguita da Massimo che la sovrasta di tutta la testa e ci guarda dall’alto dei suoi due metri di avvocato vestito di cachemire e vigogna.

Adesso Chiara si volta e scappa fuori, mi dico mentre osservo la scena, ma evidentemente non ha il coraggio, perché si limita a rispondere a Mumy con una voce stomacata: “È agghiacciante, ancora più brutto delle tue solite schifezze…”

Sono sicura che se potesse sradicare dal vaso l’alberello e buttarlo nella pattumiera come i golfini viola di una volta, lo farebbe.

Mia suocera però non si arrende: “Ma il bianco è il tuo colore preferito! Non dirmi che non ti piace più!” continua a trillare, perché non ce la fa a rassegnarsi al disprezzo della figlia per gli specchi decorati con le foglie raccolte durante le “passeggiate di meditazione”, come le chiama Mumy, dalle quali continua a tornare a casa con la borsa piena di ciarpame, che poi conserva nei “cassetti delle meraviglie”, altra sua atroce definizione.

La tensione sta già salendo: forse quest’anno scoppierà la solita rissa tra Mumy e Chiara prima ancora di sedersi a tavola? Sandro ha capito che non arriveremo all’antipasto e si precipita nell’ingresso per cercare di separarle. Tiene in mano un vassoio: “Chiara, vuoi una carota?”

Le porge quindi le crudité della moglie: carote intagliate a forma di cavaturaccioli, sedani col gambo incartato nella stagnola e altri ortaggi non identificati. La figlia ripaga con uno sguardo di affetto il gesto riconciliatorio del padre: prende un sedano e va verso il salotto. Si toglie il cappottino e comincia a ruminare in silenzio il vegetale, nell’attesa della prossima esplosione.

Massimo, il marito di Chiara, sceglie invece una tartina: apre la bocca solo quel tanto che serve per farla entrare e comincia a masticare con suprema eleganza, senza quasi muovere le mascelle. Massimo è perfetto per definizione: vestito all’inglese, con le scarpe fatte a mano da qualcuno degli ultimi calzolai di Milano, lavora come avvocato nella stesso studio di Chiara. Riservato, discreto, silenzioso, non l’ho mai sentito cominciare per primo un discorso. Risponde solo se interrogato e in modo assolutamente inattaccabile: non afferma nulla, ma ritiene, crede o al massimo spera.

Adesso Sandro è riuscito a farci sedere sui divani e versa a tutti un bicchiere di prosecco. All’improvviso, mossa da un’involontaria scossa di adrenalina, mi alzo di scatto, in tempo per placcare Alberto che ha afferrato uno dei dannati ovetti Fabergé della nonna, e sta per buttarlo per terra. Mia suocera purtroppo non concepisce l’idea di spostare anche solo per una sera i suoi soprammobili sparpagliati in casa secondo principi ancora più rigidi di quelli dell’Ikebana. Le uova Fabergè sono infatti poggiate di fianco alla ciotola di sassi di fiume per sottolineare il contrasto tra le decorazioni laccate delle uova e la “crudezza della pietra”, come ci ha spiegato Mumy. E lei da lì non le toglie, punto e basta.

Per fortuna Chiara interviene a nostro favore: “Mamma, lo sapevi che Alberto ha due anni. Non potevi levare un po’ delle tue porcherie?”

“Tu non hai rispetto per gli altri! Chiara, non finirò mai di ripeterlo: se per te qualcosa è una schifezza” – le risponde Mumy piccata – “per un altro invece può essere bellissima. Perché sei così intollerante?”

Mia cognata ha voglia di menarla, glielo leggo in faccia, ma si contiene: “Mamma, limitati a parlare di fiori freschi e secchi o di pasta sfoglia e pasta brisé: evita di lanciarti in argomenti che non sono alla tua portata! Non hai la minima idea di cosa sia la tolleranza e sei l’ultima persona al mondo che può pronunciare la parola rispetto!”

Mumy non capisce quando è il momento di tacere: “Perché non posso chiedere un po’ di rispetto per le mie uova? Lo sai, tesoro, che papà le ha comprate a New York!”

Sandro si intromette ancora una volta per ritardare l’ormai inevitabile rissa di Natale: “Chiara, tua madre è fatta così… non la puoi cambiare. Su, andiamo a tavola!”

Usciamo tutti dal salotto, mentre Massimo aspetta cortesemente che anche l’ultimo ospite sia entrato in sala da pranzo, poi avvicina delicatamente al tavolo la sedia della moglie, mentre Chiara sta per accomodarsi. Quindi si siede anche lui, sempre con la schiena perfettamente diritta, senza quasi toccare la spalliera.

Mumy ha preparato una composizione di pesce affumicato e salse fredde che ci attende nei piatti, letteralmente accerchiati da posate e bicchieri. Ho paura di scegliere la forchettina sbagliata: per mia suocera sarebbe un colpo ferale scoprire che sua nuora non sa usare la posateria. Aspetto di vedere quale posata sceglie Massimo – lui invece è privo di qualsiasi esitazione – e lo seguo con la matematica certezza di non sbagliare.

A Alberto, sistemato su una seggiola con dei cuscini bianchi, viene servita una pappa speciale, fatta con lo stesso brodo concentrato di carne che mia suocera preparava sempre per i suoi bambini. Comincio a imboccarlo: le prime cucchiaiate vanno giù lisce… sarebbe bellissimo cavarcela in pochi minuti di sforzi congiunti, miei e suoi, così da poter mangiare ancora caldi i cappelletti in brodo di cappone che Mumy sta cominciando a servirci.

Ma appena vedo il traguardo avvicinarsi, ecco che Alberto prende il cucchiaio e lo sbatte con fragore dentro il piatto, sollevando schizzi ovunque. Lo prelevo dalla seggiola e afferro istintivamente un tovagliolo per asciugargli la manina impiastricciata di minestra. No! Ho preso uno dei tovaglioli ricamati di Mumy! Mi volto a guardarla: si sta lanciando verso di noi per salvare il tovagliolo. Ha in mano un rotolo di carta da cucina, che doveva tenere pronto per le emergenze, e me lo passa mentre mi strappa la salvietta dalle mani.

Alberto non è ancora soddisfatto: si svincola dal mio abbraccio e punta direttamente ai Capodimonte poggiati sopra un tavolino rotondo con dei ripiani a loro volta rotondi, che grondano di pastorelli e cesti di fiori miniati, spolverati da mia suocera con uno spray antistatico del quale va particolarmente fiera.

Mumy lancia un grido di terrore: “Fermalo, per carità!” Anche Federico urla: “Prendilo, Silvia!”, non perché gliene freghi qualcosa delle porcellane di sua madre, ma solo perché non sopporterebbe un’altra scenata di Mumy. Riesco a fermare Alberto prima che raggiunga il target – i bambini sanno come scegliere i loro obiettivi – e lo sollevo da terra con un movimento aereodinamico, perché non colpisca qualcos’altro, mentre sgambetta di rabbia. Torniamo alla sua seggiola: ce lo rificco sopra, allontanandolo dal tavolo, così da evitare un attacco alla cristalleria di famiglia. Ma adesso devo trovare un argomento di conversazione gradito a Mumy, per scaldare l’atmosfera diventata all’improvviso freddissima…

****

“Mumy, come fai a tenere i tuoi magnifici oggetti così puliti, senza un granello di polvere?” le cinguetto, mentre mi infilo in bocca un cappelletto freddo.

Mumy gorgheggia contenta la risposta, mentre si dà un’aggiustatina allo chignon: “Bisogna seguire alcuni semplici principi. Primo: cominciare a spolverare iniziando dalle cose che stanno più in alto. Secondo: usare un pennello per togliere la polvere dai quadri e dalle ceramiche. Terzo: tenere sempre a portata di mano uno spray antistatico. Quarto: un cotton fioc imbevuto di olio paglierino fa splendere le cornici e i legni intarsiati. Quinto: senza il mio amore per l’arte non riuscirei a fare tutta questa fatica!”

Sul viso di Chiara scende un’espressione di disprezzo: “Pensi che Picasso lucidasse le cornici con l’olio paglierino? E che Modigliani passasse il piumino sulle tele tutte le mattine?”

Ma quella vanesia di Mumy ha messo in quarta e tira dritto sulla sua stupida strada: “Tesoro, sai benissimo che non ho mai osato paragonarmi a Picasso! Però sono anch’io un’artista, perché so trasformare le piccole cose che trovo in un bosco, al mare, sulle sponde di un fiume, in opere d’arte!”

Chiara volta allora di qualche grado la testa verso Massimo e gli dice: “Massimo, non ne posso più di sentire delle idiozie del genere! Credi veramente che Picasso lucidasse la cornice di Guernica?”

Lui allora rincula sulla sedia per l’angoscia di essere stato tirato in mezzo. Sembra imbarazzatissimo: si passa delicatamente il tovagliolo sulla bocca per eliminare anche l’ultimo minuscolo frammento di briciola e tenta una conciliazione extragiudiziale: “Chiara, il concetto di arte è molto elastico, e soprattutto soggettivo. Non abbiamo il diritto di contestare chi ritiene di essere un artista!”

Chiara si lascia sfuggire una smorfia di dispetto: che si stia stufando di quella specie di cadavere vivente di suo marito? Per un lungo secondo vibra nell’aria un silenzio mortale. Rotto da un fracasso di bicchieri rotti: Alberto ci ha fregato! È bastato perderlo d’occhio per un secondo, perché afferrasse una delle mie posate e, con una mira straordinaria per un bambino della sua età, colpisse due flute di cristallo di Boemia della nonna, che sono crollate trascinandosene dietro un altro paio in uno strike formidabile, degno di un futuro campione di Bowling.

Federico si volta verso di me con un’espressione che significa: “È colpa tua!” Gli comunico telepaticamente il messaggio: “Adesso taccio, ma a casa ne riparliamo!” E nel caso in cui non riuscisse a percepire i miei pensieri, li accompagno con un calcio sotto il tavolo.

Sandro cerca di addolcire il clima rissoso con un tragico: “Su, è la notte di Natale: dovremmo essere felici di stare insieme, anche se si sono rotti un paio di bicchieri!”

L’unica a rispondergli è Mumy: “Sono quattro i bicchieri rotti, non due!” Poi si alza e comincia a pulire nervosamente la tovaglia. Quando, dieci minuti dopo, porta in tavola una faraona al marsala avvolta nel prosciutto, la conversazione è praticamente defunta. Anche il semifreddo flambè viene accolto in silenzio. Rinuncio persino alla gag della ricetta: suonerebbe falsa in un simile clima da funerale.

Mancano cinque minuti alle dieci di sera quando Chiara si alza e annuncia: “Scusate se andiamo via prima, ma siamo molto stanchi”.

Mumy sta per mettersi a piangere: “Non vuoi vedere i tuoi regali?”

Chiara si è già infilata il cappotto: “Perché non me li dai adesso, invece di aspettare mezzanotte? Tanto lo so che Babbo Natale non esiste!”

“Sei senza cuore!” strilla Mumy piangendo, e le sbatte in mano due pacchettini infiocchettati. Poi si afferra lo chignon e scappa in camera da letto.

Chiara mette i pacchetti nella borsa, dà un bacio al padre, un buffetto sulla guancia a Alberto e mi saluta con gelida cortesia: “Ciao Silvia, ci vediamo presto!” Fa finta di non vedere Federico e si dirige verso la porta seguita da Massimo. Lui, rigido come un granatiere, tira un respiro e dice: “Buon Natale a tutti!”, e poi – bam! – sentiamo il rumore della porta chiusa con forza da sua moglie.

Federico conosce a memoria queste scene e non sembra particolarmente impressionato. Ma quest’anno non ce la fa neanche lui a resistere fino a mezzanotte. Per fortuna abbiamo una scusa già pronta: Alberto è stanco e vuole andare a letto.

Dopo qualche minuto sento finalmente mio marito mormorare a suo padre: “Forse è meglio se torniamo a casa, Alberto deve fare la nanna”.

Sandro è seduto con un’aria sconfitta sul sofà rivestito di un velluto a righe verdi, scelto da Mumy dopo mesi di perlustrazioni nei negozi di tessuti: “Va bene. Vai a salutare tua madre”.

Federico entra nella stanza dell’artista incompresa ed esce dopo un paio di secondi: “Andiamo Silvia!”

Infilo la giacca a vento a Alberto e scappiamo di casa con tutti i regali infilati dentro un sacchettone. Non vedo l’ora di stravaccarmi sul divano e accendere la Tv. Senza muovere un muscolo e scivolare nel buio delle mie notti senza sogni. Perché non sogno più da ventiquattro mesi. Potrei fare la cavia in un esperimento biologico sulle neomamme: con sei ore di sonno, scompare persino la cosiddetta attività onirica. Inghiottita anche lei dal buco nero.

Copyright © 2012 by Nora O’Dublin www.matrimonibolliti.com

 

Arrivederci a Settembre!

Nicola



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