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Un estratto da "Decolonizzare l'immaginario" di Serge Latouche
Creato il 18 luglio 2011 da Minerva Jones"L'intelligenza, la bellezza, l'amore, la poesia sono i valori da opporre alle bassezze del mondo, sono le armi che abbiamo a disposizione" (Salman Rushdie) "Chi è cittadino? Colui che è capace di governare ed essere governato è cittadino." (Aristotele)
Cosa fare di fronte alla globalizzazione, alla mercificazione totale del mondo e al trionfo planetario del mercato? Lo iato tra le dimensioni del problema da risolvere e la modestia delle soluzioni immaginabili a breve termine è dovuto soprattutto alla persistenza delle credenze che permettono al sistema di "tenere" sulle sue basi di immaginario. Perché le cose possano cambiare, per poter concepire soluzioni realmente originali e innovative, è necessario cominciare a vederle in modo diverso. In altri termini, per poter cambiare davvero il mondo, bisognerebbe decolonizzare il nostro immaginario, prima che il cambiamento del mondo ci condanni nel dolore. "Ciò che ci è richiesto", nota Castoriadis, "è una nuova creazione di immaginario, di una importanza senza paragoni nel passato, una creazione che metta al centro della vita umana significati diversi dall'espansione della produzione e del consumo, che ponga obiettivi di vita diversi, che possano essere riconosciuti dagli esseri umani come validi... è questa l'immensa difficoltà che ci troviamo di fronte. Noi dobbiamo cercare di immaginare una società in cui i valori economici cessino di essere centrali (o unici), in cui l'economia sia ricondotta al suo ruolo di semplice strumento della vita umana e non venga più vista come fine ultimo: una società in cui si rinunci a questa corsa folle verso un continuo aumento dei consumi. Questo non è necessario solo per evitare la distruzione definitiva dell'ambiente terrestre, ma anche e soprattutto per emergere dalla condizione di miseria psichica e morale degli uomini contemporanei" (1).
Un vecchio proverbio dice che quando si ha in testa un martello, tutti i problemi hanno forma di chiodo. Gli uomini moderni si sono messi un martello economico in testa. Tutte le nostre preoccupazioni, tutte le nostre attività, tutti gli avvenimenti vengono visti attraverso il prisma dell'economia. Come dice l'antropologo svizzero Gerald Berthoud: "L'economia è una categoria alla base della nostra intelligibilità del mondo, ma anche della della nostra incomprensione degli altri e, in definitiva, di noi stessi"(2). Per dirla con le parole di Polanyi, viviamo in "una società totalmente incastrata nella sua economia - una società di mercato" (3). Non era così nel Medio Evo, in cui, invece, tutto aveva una impronta religiosa, né, a maggior ragione, presso i Greci, che tendevano a ricondurre tutto alla sfera politico-filosofica, e neppure presso le popolazioni "primitive", per le quali la ritualità e la struttura parentale sono i valori fondamentali. Finché il martello economico resta nelle nostre teste, tutti i tentativi di riforma sono piccoli sommovimenti vani, sterili e spesso pericolosi. Dobbiamo espellere il martello economico dalle nostre teste, decolonizzare il nostro immaginario dai miti del progresso, della scienza e della tecnica. Dobbiamo fare in modo che svanisca la nostra idea di onnipotenza dell'assolutismo della razionalità. Bisogna costruire una postmodernità attraverso una aufhebung, un superamento/abolizione della modernità, il che significa attraverso un superamento che non neghi il passato modernista e razionalista. Questa postmodernità non può mirare che alla reintegrazione, alla ricollocazione della tecnica e dell'economia nel sociale. Non si tratta di abolire i mercati o di escludersene, ma di delimitare l'impero del Mercato lottando contro la sua eccessiva influenza. Deve emergere una nuova cultura, che contempli la rinascita del politico, un nuovo rapporto con l'ambiente, una nuova etica. Sarà il risultato di un lavoro storico, non il frutto di un volontarismo tecnocratico, che sia populista, nazionalista, teocratico o che si definisca - o autodefinisca - di destra o di sinistra, reazionario o rivoluzionario.
Come è possibile decolonizzare il nostro immaginario? E' una questione molto difficile perché non si può decidere di modificare il proprio immaginario. Non è qualcosa che può avvenire con una presa di decisione del genere "Oggi pensiamo così, domani penseremo in un altro modo". Tutti i tentativi di modificare radicalmente l'immaginario, di cambiarlo forzatamente, hanno avuto risultati terrificanti, come ha dimostrato l'esperienza degli Khmer Rossi in Cambogia. Nello stesso tempo, il nemico non è rappresentato solamente dagli "altri". Il nemico siamo anche noi, e' nelle nostre teste. Il nostro immaginario è colonizzato. Abbiamo bisogno di una catarsi. Ma il lavoro della storia si può fare solo a poco a poco, non attraverso soluzioni radicali, dall'oggi al domani. Tutto ciò che serve a fare questo lavoro c'è già, ma non lo vediamo. Ad esempio, il dono crea e rinforza i legami sociali mentre lo scambio mercantile li rende sterili e impersonali. Le piccole comunità e i progetti di economia alternativa, plurale e solidale possono acquisire senso e non essere più solamente un alibi, una utopia o, alla fin fine, un gadget per ingenui. Per queste realtà, il territorio, il locale saranno fondamentali. Se la razionalità è legata alla terna ingegnere-industriale-imprenditore, la ragionevolezza è legato alla terna ingegnoso-industrioso-intraprendente. Questa terna è caratteristica delle piccole comunità e deve trovare le sue radici nel territorio - se non nella terra - da ricostruire... Il problema è che la maggior parte delle soluzioni concepibili avrebbero una chance di riuscita se si fosse già realizzata la diseconomizzazione degli spiriti che dovrebbe esserne il risultato. Risolvere questa quadratura del cerchio costituisce certamente la più grande sfida con cui deve confrontarsi il pensiero critico contemporaneo.
Note 1. Cornelius Castoriadis, La Montee de l'insignifiance, Les Carrefours du labyrinthe, IV, Seuil, Paris, 1996 2. Gerald Berthoud, in Un antieconomiste nommeé Polanyi, "Bulletin du Mauss", n. 18, 1986 3. Karl Polanyi, "La fallace de l'economique", citato da Berthoud in Un antieconomiste nommé Polanyi, cit.
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