Un’eu-demonia moderna.

Creato il 18 marzo 2014 da Lostilelibero
F. Dostoevskij
La modernità sopravvive a sé stessa perché bara al gioco di cui ha peraltro sancito le regole. Essa ha bisogno di formalizzare in una regola ogni cosa che sfugge ancora al suo controllo (la previsione ne è l'ultima pretesa metodologica), intangibile e singolare, ché tutto ciò che è passibile di misurazione può essere infatti conosciuto e pertanto sottoposto a leggi e schemi razionali. La ricetta per ogni controllo della paura non è forse quella di illuminare l’ignoto per poterlo porre sotto il nostro occhio vigile - lo sguardo galileiano dell’”es-perimento” -? Questo esprit de géométrie, nella sua costante voglia di ammansire l’irrazionalità della vita per ridurne l’angoscia, ha persino avuto la presunzione di istituzionalizzare il diritto alla felicità, come se persino essa fosse un qualcosa di palpabile, oggettivo e statico, uguale per tutti.    La speranza di sublimare l’horror vacui, concretandolo in una formula da far rispettare, trova così sfogo nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776, ove viene sancito per la prima volta quel presunto “diritto alla  felicità”. L’uomo moderno, assieme all’ossessione che ne qualifica la presunta superiorità, come ricorda puntualmente Massimo Fini: “proclama diritti senza poterli soddisfare”. Pressato dall’urgenza di affidarsi perdutamente ad una qualsiasi oggettività staticizzante la vita, abbagliato dallo stesso esprit de géométrie che aveva in qualche modo ispirato gl’”illuminati padri fondatori”, ha infine ab-fidato a questo totem razionale il compito di misurare anche la bontà delle proprie convinzioni. Nel Saggiatore del “nostro” Galileo erano già presenti, invero, le premesse di questo tentativo. Il pisano, postulando che il libro dell’universo fosse scritto esclusivamente in “lingua geometrica”, riduce implicitamente il contenuto del reale a corpi estesi di cui la scienza fisico-matematica fa il suo nuovo oggetto d’indagine. Ma all’uomo pare non basti considerare tutto ciò che non si piega all’indagine logico-matematica come un’apparenza priva di valore (le “qualità secondarie”, da ora in avanti, saranno tutte quelle che faranno riferimento alla sensibilità, ormai esclusivamente estetica soggettiva), e così qualche anno più tardi l’inglese Bentham utilizzò quella stessa razionalità nel calcolo dei piaceri e dei dolori, divenuti nel frattempo anch’essi “oggetti” suscettibili di valutazione quantitativa. Dal “sentito” del coeur, che viene razionalizzato per comprendere la bontà (utilità) di un’azione, alla scientifica felicità dei giorni nostri, il passo è breve. E’ il caso, ad esempio, dell’ultima “seria” indagine condotta dalla Columbia University (Word happines report 2013), che ha stilato la classifica dei paesi “più felici”. Ne emerge che l’Italia è al 45° posto (6,021 indice di felicità – la sicura Colombia e la democratica Arabia Saudita si sono piazzate meglio di noi -), mentre, come spesso accade in queste statistiche, i primi posti sono stabilmente occupati dai paesi del nord Europa (la Danimarca al 1° posto, la Norvegia, la Svezia e l’Olanda seguono a ruota). Guardando però alle care e vecchie “qualità primarie”, emergerebbe forse uno scenario un tantino stonato, tanto che la distanza tra il Bengodi dei “contentoni” e l’inferno munchiano pare minima, persino trascurabile. Le tabelle sui suicidi annui ogni centomila abitanti evidenziano infatti una tendenza del tutto discorde: l’Italia si piazza 65° con 6,3 suicidi annui (dato fermo al 2007 – da allora anche qui s’è fatto qualche passo in più verso la felicità -) mentre gli “allegri suicidi” nordeuropei sono rispettivamente 19° con la Finlandia (16,8 suicidi), 23° la Svezia (15,3), 35° e 36° la Norvegia e la Danimarca (11,9 a pari merito). La Scandinavia, quindi, come voglia di eutanasia? Da un’altra “affidabile” indagine della London School of Economics and Political Science scopriamo invece che, al netto di un aumento generico nei consumi di antidepressivi in Europa pari al 20% annuo tra il 1995 e il 2009, in Svezia sono aumentati oltre il 1000%, in Norvegia del 566% e in Danimarca del 766%. I cittadini dei paesi più “felici”, più “democratici”, più all’avanguardia nel welfare e nei servizi, più ricchi e progrediti, sembrano stare talmente bene, inversamente a quanto si potrebbe supporre dalla “qualità della vita”, da soffrirne. Per definire questa proterva eudemonia con Nietzsche: “ciò a cui essi mirerebbero con tutte le loro forze è l'universale verde felicità da pascolo delle greggi, con sicurezza, assenza di pericoli, benessere, alleggerimento della vita per ognuno; i loro due ritornelli dottrinali più largamente canticchiati si chiamano “parità di diritti” e “compassione per ogni sofferente” - e lo stesso dolore viene preso da essi come un qualcosa che deve essere “eliminato”. Nemmeno i più progrediti tra i moderni sembrano quindi stare così tanto bene dentro il vestito che proprio quello stesso frenetico progresso ha cucito loro addosso. Un habitat che spinge l’uomo a dover sopportare sempre e solo il vuoto, una stressante luce costante anche nel loro lungo e buio inverno. Quella felicità obbligata, portando quindi l’uomo al limite, gli fa preferire la morte o l’attenuazione della propria capacità d’intendere – il che è lo stesso – all’eldorado in cui lo costringe il benessere. Ma questa nuova felicità moderna, non dimentica di ricordare l’Onu che ha patrocinato e pubblicato la ricerca, non è pensata per gli uomini. Essa è invece uno dei fattori essenziali “per la crescita e per la produttività”… Evviva la sincerità!

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