La modernità sopravvive a sé stessa perché bara al gioco di cui ha peraltro sancito le regole. Essa ha bisogno di formalizzare in una regola ogni cosa che sfugge ancora al suo controllo (la previsione ne è l'ultima pretesa metodologica), intangibile e singolare, ché tutto ciò che è passibile di misurazione può essere infatti conosciuto e pertanto sottoposto a leggi e schemi razionali. La ricetta per ogni controllo della paura non è forse quella di illuminare l’ignoto per poterlo porre sotto il nostro occhio vigile - lo sguardo galileiano dell’”es-perimento” -? Questo esprit de géométrie, nella sua costante voglia di ammansire l’irrazionalità della vita per ridurne l’angoscia, ha persino avuto la presunzione di istituzionalizzare il diritto alla felicità, come se persino essa fosse un qualcosa di palpabile, oggettivo e statico, uguale per tutti. La speranza di sublimare l’horror vacui, concretandolo in una formula da far rispettare, trova così sfogo nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776, ove viene sancito per la prima volta quel presunto “diritto alla felicità”. L’uomo moderno, assieme all’ossessione che ne qualifica la presunta superiorità, come ricorda puntualmente Massimo Fini: “proclama diritti senza poterli soddisfare”. Pressato dall’urgenza di affidarsi perdutamente ad una qualsiasi oggettività staticizzante la vita, abbagliato dallo stesso esprit de géométrie che aveva in qualche modo ispirato gl’”illuminati padri fondatori”, ha infine ab-fidato a questo totem razionale il compito di misurare anche la bontà delle proprie convinzioni. Nel Saggiatore del “nostro” Galileo erano già presenti, invero, le premesse di questo tentativo. Il pisano, postulando che il libro dell’universo fosse scritto esclusivamente in “lingua geometrica”, riduce implicitamente il contenuto del reale a corpi estesi di cui la scienza fisico-matematica fa il suo nuovo oggetto d’indagine. Ma all’uomo pare non basti considerare tutto ciò che non si piega all’indagine logico-matematica come un’apparenza priva di valore (le “qualità secondarie”, da ora in avanti, saranno tutte quelle che faranno riferimento alla sensibilità, ormai esclusivamente estetica soggettiva), e così qualche anno più tardi l’inglese Bentham utilizzò quella stessa razionalità nel calcolo dei piaceri e dei dolori, divenuti nel frattempo anch’essi “oggetti” suscettibili di valutazione quantitativa. Dal “sentito” del coeur, che viene razionalizzato per comprendere la bontà (utilità) di un’azione, alla scientifica felicità dei giorni nostri, il passo è breve. E’ il caso, ad esempio, dell’ultima “seria” indagine condotta dalla Columbia University (Word happines report 2013), che ha stilato la classifica dei paesi “più felici”.
La modernità sopravvive a sé stessa perché bara al gioco di cui ha peraltro sancito le regole. Essa ha bisogno di formalizzare in una regola ogni cosa che sfugge ancora al suo controllo (la previsione ne è l'ultima pretesa metodologica), intangibile e singolare, ché tutto ciò che è passibile di misurazione può essere infatti conosciuto e pertanto sottoposto a leggi e schemi razionali. La ricetta per ogni controllo della paura non è forse quella di illuminare l’ignoto per poterlo porre sotto il nostro occhio vigile - lo sguardo galileiano dell’”es-perimento” -? Questo esprit de géométrie, nella sua costante voglia di ammansire l’irrazionalità della vita per ridurne l’angoscia, ha persino avuto la presunzione di istituzionalizzare il diritto alla felicità, come se persino essa fosse un qualcosa di palpabile, oggettivo e statico, uguale per tutti. La speranza di sublimare l’horror vacui, concretandolo in una formula da far rispettare, trova così sfogo nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776, ove viene sancito per la prima volta quel presunto “diritto alla felicità”. L’uomo moderno, assieme all’ossessione che ne qualifica la presunta superiorità, come ricorda puntualmente Massimo Fini: “proclama diritti senza poterli soddisfare”. Pressato dall’urgenza di affidarsi perdutamente ad una qualsiasi oggettività staticizzante la vita, abbagliato dallo stesso esprit de géométrie che aveva in qualche modo ispirato gl’”illuminati padri fondatori”, ha infine ab-fidato a questo totem razionale il compito di misurare anche la bontà delle proprie convinzioni. Nel Saggiatore del “nostro” Galileo erano già presenti, invero, le premesse di questo tentativo. Il pisano, postulando che il libro dell’universo fosse scritto esclusivamente in “lingua geometrica”, riduce implicitamente il contenuto del reale a corpi estesi di cui la scienza fisico-matematica fa il suo nuovo oggetto d’indagine. Ma all’uomo pare non basti considerare tutto ciò che non si piega all’indagine logico-matematica come un’apparenza priva di valore (le “qualità secondarie”, da ora in avanti, saranno tutte quelle che faranno riferimento alla sensibilità, ormai esclusivamente estetica soggettiva), e così qualche anno più tardi l’inglese Bentham utilizzò quella stessa razionalità nel calcolo dei piaceri e dei dolori, divenuti nel frattempo anch’essi “oggetti” suscettibili di valutazione quantitativa. Dal “sentito” del coeur, che viene razionalizzato per comprendere la bontà (utilità) di un’azione, alla scientifica felicità dei giorni nostri, il passo è breve. E’ il caso, ad esempio, dell’ultima “seria” indagine condotta dalla Columbia University (Word happines report 2013), che ha stilato la classifica dei paesi “più felici”.
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