Un fantastico via vai
Arnaldo, Anita e le due gemelle Martina e Federica, ecco la famiglia Nardi. Una tranquilla e normalissima famiglia medio borghese. L’uomo è in quella fase della sua vita dove la nostalgia per il periodo da studente si fa forte. Sarebbe bello poter tornare indietro. Sarebbe bello riassaporare quei momenti. Sarebbe bello anche raccontare a qualcuno che ha poco più di vent’anni che nella vita bisogna credere ai propri sogni e non avere paura. Magari arrivando anche a rubare una caravella di Cristoforo Colombo, come ha fatto lui, e spiegare le vele al vento per poi fermarsi solo quando…rubare una caravella di Cristoforo Colombo? Un equivoco con la moglie e la donna lo butta fuori casa! Questa è la sua grande occasione per una personalissima “macchina del tempo”. L’uomo infatti decide di andare momentaneamente a vivere in una casa di studenti: sono quattro, hanno poco più di vent’anni e l’uomo da un giorno all’altro rivive con loro quell’età, quelle speranze, quei dubbi che “purtroppo” lui non sembra avere più. Due mondi a confronto, due modi di vedere il futuro, un unico obiettivo: ritornare a quella caravella rubata…se c’è davvero.
Sono sincera, non ho mai apprezzato la commedia italiana attuale se non qualche isolato caso, e Un fantastico via vai , ahimè, non è fra questi. Il film narra di Arnaldo Nardi, un uomo di 45 anni, sposato, padre di due belle bambine e con un lavoro sicuro in banca. Un equivoco spinge la moglie a cacciarlo di casa e Arnaldo, ormai annoiato dalla ripetitiva vita matrimoniale, coglie al volo l’occasione per andare via. Si ritrova così a condividere un appartamento con quattro studenti universitari. La storia è fra le più banali, manca di spessore, di credibilità, di divertimento. Sembra di trovarsi all’interno di una di quelle barzellette che iniziano con un “C’era una volta un italiano, un americano e un francese” ma al loro posto troviamo la coatta romana, il perugino mulatto, la siciliana incinta, il cameriere napoletano, il fiorentino razzista. I personaggi sono una caricatura di loro stessi, ritroviamo infatti un’accozzaglia di culture diverse, ognuna rappresentata tramite i suoi stereotipi i quali vengono presi e utilizzati al fine di creare, in un qualche modo disperato, una sorta di storia.Il film contiene tante gag che dovrebbero essere divertenti, ma per chi si aspetta qualcosa del calibro di “noio volevan, volevon, savuar, noio volevan savuar l’indiriss, ia?” questo divertenti è alquanto opinabile. Tutto gira intorno alla solita comicità ambigua e maliziosa. La commedia è ricolma di buoni sentimenti e discorsi melensi e per quanto le intenzioni siano delle più nobili il risultato ottenuto è un’esasperazione delle umane emozioni. Nel film si parla in chiave comica dell’infatuazione di una dei personaggi per un ragazzino di 14 anni. Anna, la romana venticinquenne, dice di avere il toy boy, ovvero il ragazzino al quale da ripetizioni, che viene rappresentato in un primo momento come sicuro di sé ma successivamente quasi spaventato dalla sua sexy insegnante. Ovviamente a tutta la storia viene data una venatura “divertente” e “ilare” anche se durante uno scambio di battute Arnaldo dice sarcasticamente ad Anna che quello che ha non è un toy boy bensì un reato. Unico fattore positivo e apprezzabile sono i luoghi nel quale è stato girato il film, abbiamo infatti come sfondo la bellissima Arezzo. Mi chiedo quindi a gran voce:
- Come può un film,una commedia italiana, considerando l’attuale situazione italiana, parlare delle banche come delle benefattrici?
- Perché dobbiamo trovare all’interno di un film scene girate appositamente per inquadrare uno dei protagonisti con in mano il pacco di quella specifica marca di pasta?
- Dove esiste una casa di studenti universitari bella, accogliente e spaziosa come quella vista nel film?
- Cosa c’è di divertente nel raccontare di una ragazza di 25 anni che durante le lezioni private circuisce un ragazzo di 14 anni?
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