Un altro giorno un’altra ora ed un momento
dentro l’aria sporca il tuo sorriso controvento
il cielo su Torino sembra muoversi al tuo fianco
Ero solo un ragazzino quando mi sono appassionto ai ritmi opachi e struggenti dei Subsonica, e ogni volta che sentivo Il cielo su Torino cercavo di immaginarmi il teatro metropolitano dove la band potrebbe essere crescitua tra tensioni e angosce, pur senza smettere di amare la loro città, fino ad arrivare a quella produzione artistica su cui ondeggiavo inebetito nel disperato tentativo di fare colpo sulla moretta con le scarpe da skate.
Dal 26 aprile al primo maggio Torino ha ospitato il suo Jazz Festival cittadino. La seconda edizione torinese della rassegna musicale ha raccolto 130 mila presenza, che si sono divise tra i palchi di Piazza Valdo Fusi e Piazza Castello, oltre alle salette jazz improvvisate in vari locali della città. Purtroppo a loro volta i partecipanti hanno raccolto litri e litri d’acqua chi impietosa ha continuato ad annaffiare dal cielo tutta la manifestazione.
Io, pur avendo un grandissimo rispetto per questo nobile genere musicale, non posso dirmi un esperto di jazz. Mi riconosco più che altro in una battuta di un film comico che diceva più o meno: “Certo che mi piace il jazz. Tre, quattro… persino cinque minuti di seguito. Poi però…” Ciononostante mi sembrava una buona occasione per visitare Torino e assaggiare qualche specialità del luogo (ancora non riesco a spiegarmi cosa sia esattamente la bagna cauda…).
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Quando il mio vecchio amico mi è venuto a prendere alla stazione di Porta Susa ha esordito con: “Torino è una città schizzofrenica. Mi piace, ma ancora non la capisco.” Io mi guardavo attorno, circondato dagli enormi palazzi che sembrano disposti a mostrarti solo quello che vogliono, come il grandioso Corso Vittorio Emanuele II, che attraversando la città consente di vedere da un capo all’altro di Torino e lascia l’erronea impressione che il centro sia piuttosto piccolo.
Purtroppo la mia participazione al Festival è stata irrisoria. La prima sera abbiamo provato a infilarci nella saletta di un locale del centro, ma il massimo che sia riuscito a vedere erano le nuche degli astanti che mi precedevano. In piazza, dopo un vago tentativo per contrastare la dispersività del palcoscenico, ci siamo piegati alla pioggia e abbiamo cercato rifugio in un ristorante (dove però non servivano la bagna cauda).
Il giorno successivo sono stato scortato a visitare il Balon, lo storico mercatino delle pulci che si tiene ogni sabato nel quartiere Aurora: una raccolta impressionante di cianfrusaglie e articoli elettronici smembrati e sparpagliati sui marciapiedi, ma anche di incredibili pezzi di antiquariato camuffati da rifiuti. La parola d’ordine è una sola: contrattare. Cosa che io non sono assolutamente capace di fare e quindi ho ripiegato in ritirata senza troppa gloria. Siamo poi arrivati al grazioso Parco del Valentino, un’area vede che circonda l’omonimo castello medievale divenuto dimora dei Savoia.
La sera sembravamo pronti ad affrontare il Jazz Festival incuranti del tempo (per tre, quattro… persino cinque minuti), ma siamo stati selvaggiamente dirottati su El Paso, storico centro sociale di Torino, per un concerto punk. Io con il punk ci sono cresciuto, ma non sono sicuro di essere riuscito a spiegare ai presenti perché in quel luogo io ci fossi arrivato vestito come un damerino con tanto di giacca scura.
E anche stavolta, comunque, niente bagna cauda…
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sudafrica… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.
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