Il treno è un mezzo che a causa della mia natura nomade sono costretto a prendere spesso e, ogni volta il viaggio che scivola sulle rotaie diventa un viaggio dentro me stesso. Forse perché ho tempo, forse perché a volte mi giro e vedo il mio riflesso e questo tipo che mi assomiglia sembra perplesso; e prima di che i miei pensieri diventino un ascesso d’ansia, apro questo breviario che porto sempre appresso. Pagine bianche, spogliate di storie già scritte, maledettamente troie come le sirene di Ulisse, suonano melodie ammalianti senza note fisse. Questa volta tappo le mie orecchie con le cuffie e mi lego ad una matita perché il richiamo del foglio bianco in realtà è una calamita, è una sfida dove gli schemi e i limiti si inginocchiano ad una libertà infinita; perché come diceva Alda Merini un foglio senza segno è violento, ti strappa dal mondo che stai vivendo e ti trascina dentro, verso il richiamo del vuoto che ha un grido assoluto, verso quel vuoto che non è mai muto. E io ci sono caduto, sono rimasto impigliato in questa ragnatela. Il foglio bianco in realtà è una vela che si muove con i respiri, con i singhiozzi, gli incazzi, gli scazzi, gli sfoghi, i sospiri, con le ragioni del cuore e per chiudere la rima, le ragioni del dolore. Ho un foglio bianco come il lenzuolo delle vergini, come l’aggettivo immacolato. Vorrei parlare di mia nonna che ora ricama un cielo stellato; non parlerò mai di politica perché non sono ben informato o non sono interessato; posso parlare d’amore su cui sono preparato ma il mio profilo pubblico dice solo parte di quello privato. E si cerca di trasformare un brief nato in agenzia in una poesia, ma si finisce per fare filosofia che per fortuna si basa su interpretazioni. Quindi un foglio bianco, paziente, aspetta di incontrare le emozioni. Ma un foglio bianco ha anche un limite che è dato dai suoi confini.
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