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Un “fronte del linguaggio” per una nuova cittadinanza

Creato il 29 gennaio 2011 da Pinomario

Un “fronte del linguaggio” per una nuova cittadinanza

“Il linguaggio dovrebbe essere al centro di qualunque analisi della politica!” Non ho mai dimenticato questa frase di Pierre Bourdieu (La responsabilità degli intellettuali, Laterza). A partire dalle sue analisi ho imparato a modificare il mio approccio nei confronti dell’informazione politica, del linguaggio politico e dei discorsi dei politici. Ho imparato a “leggere” in modo meno acritico la comunicazione politica. Ho colto l’urgenza di un ascolto “scettico e diffidente” delle parole dei politici. Ho smesso l’ingenua abitudine a considerare come un “dato”, da cui partire, tutto quello che viene detto nel dibattito politico. Ho cominciato a non farmi dettare dai discorsi dei politici i temi su cui riflettere e discutere. Ho cominciato a non dare tanta importanza e tanto tempo a quello che i politici dicono. Badando soprattutto ai loro effettivi atti e alle loro implicazioni. Scriveva ancora Bourdieu che “ridotto all’essenziale il lavoro politico è un lavoro sulle parole poiché anche le parole contribuiscono a fare il mondo sociale. Mettere una parola al posto di un’altra significa cambiare la visione del mondo sociale e, a partire da questo, contribuire a trasformarlo: il che – purtroppo - avviene spesso in vista di  interessi  che non sono quelli collettivi! Occorre sapere che la funzione del discorso politico, in realtà, è, per lo più, quella di convocare, schierare, mobilitare. Non tanto quella di ”dire” o di “descrivere”. Se è vero che ogni tipo di linguaggio verbale ha una natura essenzialmente polisemica, e si accompagna spesso ad ambiguità o equivocità, ancora più il discorso politico quotidiano  (cioè quello dei politici, dei giornalisti, degli opinionisti o dei “commentatori” politici, anche di quelli “esperti” che vorrebbero apparire “imparziali”) non deve essere considerato lo “specchio”  o la descrizione di una realtà “oggettiva” che sta “là fuori”, quanto piuttosto un modo per creare “mondi possibili”, “astraendo dalla realtà complessa percezioni dotate di senso, sulla base di semplificate organizzazioni della realtà stessa” (F. Rigotti, Metafore della politica, Il Mulino). Si capisce allora perché le forme e i generi della comunicazione politica e i diversi temi proposti nell’”informazione” politica, sono fonte di distorsioni e inganni: infatti vengono – inconsapevolmente - ricevuti in modo acritico e acquisiti come “dati”, anche da parte dei cittadini più acculturati!  Non sembra lontano dalla realtà, perciò, dire che i discorsi e l’informazione politica sono accolti, nella pratica comune, come le tracce di quei “temini” che il maestro proponeva, una volta, agli scolari, perché essi li “svolgessero”, attenendosi alla traccia: anche a noi – cittadini adulti - ogni giorno vengono offerte “tracce” (o “veline”?) da “svolgere”, alle quali diligentemente ci applichiamo! E magari lo facciamo anche attraverso un “metodo attivo”, partecipato: discutendone animatamente, in gruppi, a casa, nei bar, nei luoghi di lavoro o nelle piazze, anche in quelle telematiche!  Si spiega, anche così, quell’uniformità di lingua e di argomenti di discussione, quel continuo spostamento di “parole” da un contesto all’altro, quella loro continua ripetizione, quel linguaggio stereotipato e kitsch, largamente diffuso e bene accolto, segno ed espressione di una malattia degenerativa della vita pubblica, che si autoriproduce, passando dai discorsi dei politici al discorso quotidiano dei cittadini (cfr. G. Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Einaudi).Quel modo di “raccontare” le cose della polis, - attraverso “una lingua che ci sovrasta, elaborata e veicolata nei circuiti della comunicazione, carica di sottintesi che ci avvolgono con un intreccio di significati che....accogliamo come ovvi” (Zagrebelsky), - ci irretisce e ci distrae dalla necessità, questa sìpolitica”, di tentare di mettere a fuoco i fili della matassa, e di svelare i collegamenti nascosti dietro parole che ci appaiono – troppo! – consuete.  Dal momento che le parole della politica esercitano anche un potere quasi “magico”, nel senso che tendono a “far vedere”, a “far credere”, a “far agire”, occorrerebbe imparare a considerare il linguaggio dei politici (ma ciò vale in genere anche per altre forme di linguaggio) sempre e solo come un linguaggio metaforico, il cui scopo è imporre il proprio vocabolario”, più che individuare o rappresentare problemi effettivi! Il discorso politico e le parole della informazione politica sono infatti, semplicemente, un tipo di “racconto” non una “descrizione” di qualcosa. E allora non possono essere presi “alla lettera”, né confusi con il “reale”! Confondere quello che è un modo di “raccontare” con la “descrizione” delle “cose” della polis, significa venire irretiti nel potere omologante della parola politica, e quindi essere assoggettati al discorso politico come potere!Ma, ai cittadini, - trascinati dallo spettacolo della comunicazione politica e trasformati  in “tifoserie” e spettatori paganti di scontri “cifrati” tra soggetti politici e gruppi di potere -, rimane forse un modo per riappropriarsi del proprio ruolo politico e di un effettivo diritto di cittadinanza. Nonostante il diffuso sentimento di impotenza, che sembra a volte fiaccarli e disarmarli, i cittadini dovrebbero cominciare con l’aprire una sorta di  “fronte del linguaggio”! O vogliamo lasciare quella cosa troppo importante, che è “la Politica”, solo ai politici? Si potrebbe partire da una semplice operazione alla portata di tutti: con una certa frequenza, provare a “togliere l’audio” ai discorsi politici e alla comunicazione politica quotidiana, e approfittare di questo “digiuno” per imparare a ripensare insieme l’esercizio della politica e per togliere dall’ombra, con altri mezzi informativi e di studio, i processi reali, politici e sociali, del proprio paese e del mondo globale contemporaneo. O vogliamo accontentarci di farci suggerire ogni giorno, ciò di cui occuparci e di cui parlare, dai “registi” della comunicazione politica? Magari da quei giornalisti o quei commentatori  – “esperti” imparziali!? – che, dovendo scrivere un “pezzo” ogni giorno, devono pur trovare qualcosa da dire? L’apertura di un “fronte del linguaggio” richiederebbe poi di cominciare a imparare a riconoscere e decifrare le forme e le strategie retoriche della comunicazione politica; e, successivamente, diventare abili nel porsi domande su cosa viene detto e cosa viene nascosto, su chi ha la parola, chi parla di più, e su “chi parlaveramente, nella comunicazione politica!  La “polis” contemporanea sembra trasformarsi sempre più in una “foresta di simboli” nella quale, per ogni cittadino, diventa molto più difficile orientarsi, districarsi e scegliere.  Anche da questo fatto emerge un motivo in più per porre all’inizio dell’ educazione politica – oggi necessaria e urgente, specie in Italia - l’acquisizione della capacità di riconoscere e decodificare i linguaggi della  comunicazione politica. A quanto pare, “imparare a leggere” sembra veramente il concetto chiave e la competenza fondamentale oggi!

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