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Un gatto nero, Trilussa e Anna Magnani

Da Met Sambiase @metsambiase

trilussa

(Trilussa nel suo studio – 1950 – archivio CinecittàLuce\Incom)

Lo spazio per l’espressione vernacolare è fonte di area ristretta nei territori di ricerca poetica.  Ma non è poi così modesta   l’attenzione verso quest’altra possibilità espressiva di lingua dentro la lingua, e si legge in modulazione di dialetto anche in poeti attuali. La tradizione ne è naturalmente più ricca. Lasciando ad altri spazi ed ad altre scritture o semplicemente ad altri tempi la cura verso delle scelte critiche dialettali, si porta in lettura un aneddoto su Carlo Alberto Salustri, più noto con il nome de plume di Trilussa, narrato nelle pagine dell’interessante biografia dedicata ad Anna Magnani, amica del poeta. E’ un episodio “post mortem”, poiché la grande attrice racconta in un’intervista su Paese Sera di un fatto accaduto nei giorni dopo la morte del poeta, con protagonista il suo gatto.  E poiché il “bestiario” di Trilussa è sempre antropomorfo, soprattutto di animali (ed insetti) domestici, la storia raccontata è una piccola cornice aneddotica che ben potrebbe essere inserita nel mondo pungente e accorto che ha narrato il poeta romano.

***

Trilussa “aveva il suo studio proprio sopra la Fono Roma – racconta Anna Magnani –  con un soffitto vertiginosamente alto con una specie di scala da pompiere dipinta di azzurro e fiancheggiata da angeli a coppie, una per piolo. Allora, lui vivo, mi faceva tanto pensare a una scala che portasse il poeta su per il cielo ogni volta che ne aveva voglia. In quello studio, dopo la sua morte erano rimasti Rosa, la governante, e un gattone nero grosso come un agnello.

anna magnani

In quel periodo io andavo alla Fono Roma a doppiare ora non ricordo quale film americano e a un certo punto mi accorsi che il gatto di Trilussa era sparito. Era una bestia abitudinaria, e non avrebbe mai lasciato la casa del suo antico padrone se non ce l’avessero costretta. Ma c’è sempre qualcuno che ti dice la verità e così seppi che un certo personaggio della Fono Roma per superstizione di quel colore nero, aveva chiuso il gatto in un sacco ed era andato ad abbandonarlo chissà dove. Trovai la cosa assolutamente stupida e disumana, e dissi che se il gatto non ritornava, non avrei proseguito il doppiaggio del film. Il giorno dopo trovai il gatto al suo solito posto. Da allora nessuno lo toccò più, e anzi qualche tempo dopo seppi che l’avevano portato perfino a un concorso di bellezza, dove era stato presentato, e premiato come il gatto di Trilussa.

(da Anna Magnani – la biografia di Matilde Hochkofler)

trilussa
L’INGEGNO

L’Aquila disse ar Gatto: – Ormai so’ celebre.

Cór nome e có la fama che ciò io

me ne frego der monno: tutti l’ommini

so’ ammiratori de l’ingegno mio! -

Er Gatto je rispose: – Nu’ ne dubbito.

Io, però, che frequento la cucina,

te posso di’ che l’Omo ammira l’Aquila,

ma in fonno preferisce la Gallina…

***

L’AFFARE DELLA RAZZA

Ciavevo un gatto e lo chiamavo Ajò,

ma, dato ch’era un nome un po’ giudio,

agnedi da un prefetto amico mio

pe’ domannaje se potevo o no:

volevo sta’ tranquillo, tanto più

ch’ero disposto de chiamallo Ajù.

-Bisognerà studià – disse er prefetto -

la vera provenienza de la madre.-

-Dico: la madre è un’angora, ma er padre

era siamese e bazzicava er ghetto,

er gatto mio, però, sarebbe nato

tre mesi doppo a casa der Curato.

-Se veramente ciai ‘ste prove in mano,

-me rispose l’amico -se fa presto.

La posizione è chiara- e detto questo

firmò una carta e me lo fece ariano.

-Però, – me disse – pe’ tranquillità ,

è forse mejo che lo chiami Ajà-”.

***

Er cortiletto chiuso

nun serve a nessun uso.

Dar giorno che li frati de la Morte

se presero er convento, hanno murato

le finestre e le porte;

e er cortile rimase abbandonato.

Se c’entra un gatto, ammalappena è entrato

se guarda intorno e subbito risorte.

Tra er muschio verde e er vellutello giallo

ancora s’intravede una Fontana

piena d’acqua piovana

che nun se move mai: pare un cristallo…

LO SFRATTO

— Perché me cacci? — chiese un vecchio Gatto

a una Guardia1 der Foro2

che je dava lo sfratto.

— Li mici stanno bene a casa loro:

— disse la Guardia — nun te crede mica

che, co’ tutte ‘ste bestie, Roma antica

guadagni de prestiggio e de decoro…

Te la figuri un’epoca imperiale

co’ li gatti che aspetteno la trippa

e l’avanzi incartati in un giornale?

o che stanno, magara, a fa’ l’amore

tra le colonne indove Marco Agrippa

annava a spasso co’ l’Imperatore?

— E va be’! — fece lui — Ma prima o poi,

quanno verranno in mezzo a le rovine

le sorche de le chiaviche3 vicine,

richiamerete certamente a noi…

Capisco: l’ambizzioni so’ ambizzioni,

perché la storia è storia e nun se scappa4:

ma li sorci, però, chi je l’acchiappa?

Mica ce ponno mette li leoni!

***

FEDELTÀ

— Ciò avuto sei padroni in vita mia:

— diceva un Cane a un Micio — e giurerei

d’esse stato fedele a tutti e sei,

perfino a chi m’ha detto: Passa via!

Per me nun c’è nessuna diferenza:

qualunque sia padrone, o bello o brutto,

bono o cattivo, l’ubbidisco in tutto

con una spece de riconoscenza…

— È una bella virtù la gratitudine:

ma, francamente, — j’arispose er Micio —

quello d’esse fedele è un sacrificio…

— Macché! —je disse er Cane — è un’abbitudine…


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