UN GEROGLIFICO
racconto di Ivano Mugnaini
Avevo resistito, in qualche modo, alla vita. Avrei saputo resistere anche alla morte? Come l’avrei guardata nell’attimo in cui sarebbe entrata da quella porta? Di cosa avremmo parlato? Come avremmo passato il tempo insieme?
Me l’ero chiesto, per anni, come se fosse una questione lontana, puramente teorica. Una visita medica di routine, poi, un pomeriggio come tanti. Un dottorino dalla faccia tetra, sincera. L’ora per me era arrivata, senza strepito, affamata e con un discreto anticipo. Una morte annunciata, con il lusso, il privilegio, del preavviso. La data di scadenza comunicata in modo ufficiale, ma anche civile, quasi lieve, quasi umano. Nell’arco di pochi mesi giungerà l’epilogo per me.
Il pianto e il riso acquistano d’un tratto un sapore diverso, una consistenza strana. Saziano presto, e, altrettanto rapidamente, stancano. Baratri di tempo svuotano le braccia, lo stomaco, le vene. Si tratta solo di stabilire, a questo punto, per sopravvivere, per non morire prima del tempo, come trascorrere i giorni che mi restano. Il primo impulso, meta eletta, china naturale verso cui scivolano le idee, è il lago gelato dei bilanci. Le cose fatte e non fatte, i successi e i fallimenti. Destinazione da evitare ad ogni costo. Sorridere e ghignare sul tempo andato, perso, ritrovato mai, sarebbe un gioco sterile, con il rischio ulteriore di piombare in gorghi di ghiaccio. Un’alternativa possibile è meditare su possibili vendette: cogliere rivincite, finalmente, ora che non ho davvero più niente da perdere. Ma costa troppe energie, fisiche e mentali. Inoltre, viste dalla prospettiva nuova, molte montagne di rabbia mi sembrano mucchietti di melma e letame. Così, contro ogni attesa, mi ritrovo a concentrarmi completamente su un capitolo inedito: Ringraziamenti e Ricompense. Corro a ritroso lungo il sentiero degli anni andando a recuperare quelle rare persone che, inaspettatamente, hanno dato senza chiedere, senza pretendere qualcosa in cambio.
La prima che mi viene in mente è Rina Giromini da Livorno, classe 1975. Una compagna dell’Università, una delle poche di cui non mi ero mai innamorato. Sbagliando. Più che mai, nel suo caso. Giromini, solo ora riesco a concentrarmi sulla magia giocosa del suo cognome: il giro opposto, l’altro lato degli uomini, delle persone. Uomini a rovescio, o giù di lì. Diversi, differenti per sorte e per natura. Di sicuro diversa era lei.
Provo a ricontattarla tramite un vecchio numero di telefono ripescato in un’agenda impolverata. Mi risponde subito. È fedele negli anni anche a quella serie di numeri. Ha la stessa voce misurata, cortese. Parla degli anni trascorsi con tranquillità, come se descrivesse l’acqua bruna di un temporale già assorbita da un sole nuovo. Accetta di incontrarmi. A Pisa, in via Santa Maria, davanti all’ingresso dell’Università, come se dovessimo andare ad un’ennesima lezione. È più bella, più matura, sofferta e quieta come non mai. Dopo brevi e frettolose frasi di circostanza, le dico, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che mi resta poco da vivere. Lei, ugualmente serena, con un volto imperscrutabile, mi parla di una leggenda egizia: “Quando nasce un bambino sette dei decidono della sua morte…”. La ascolto e la osservo, sorpreso, spiazzato. Nuovamente quieto, anch’io. Ha i capelli ancora corvini, lucenti come aspidi. È una maga forse, discendente della stirpe di Cleopatra.
“Quando nasce un bambino sette dei decidono della sua morte: se nasce il ventitre muore per un morso di coccodrillo, se nasce il quattro muore di febbre, se nasce il quindici muore d’amore…”. La interrompo. “Io sono nato il quindici”.
La guardo negli occhi, nelle labbra carnose. Rido. Con incantata amarezza. È tardi. È tardi per tutto, ormai.
Ma Rina è nota, e infinitamente cara, a me, ai miei ricordi più nascosti, soprattutto per una frase. Un mattino si sedette al mio fianco, sul banco screpolato dell’Aula Magna, si accostò fino a sfiorami e mi sussurrò: “Sorprendili!”. Poche sillabe, il senso di una vita. Con leggerezza, senza riso, senza il macigno compatto di un’imposizione. “Sorprendili!”. Sorprendi loro, il luogo comune, il cliché, il marchio impresso a fuoco sulla schiena. Sorprendi te stesso, le idee, le paure, le convinzioni, i dubbi, le certezze. Mi incitava Rina, accarezzandomi quasi per caso, come per errore, a fare qualcosa di inatteso, scoprendo il coraggio della volontà, l’arte di mettersi in gioco. Perdersi nella sete del volo senza pensare allo schianto, alla polvere.
La osservo ancora. A lungo, con cura, come non avevo mai fatto. È bella. È questa la prima e la più grande conferma. Bella senza se e senza ma. Vorrei dirglielo finalmente, con le mani e con le labbra. Ma mi blocca l’eco cristallizzata nella memoria, la voce del medico: “Qualche mese, nel migliore dei casi. Non di più”. Già. Nulla di più della morte può e deve piacermi ora.
Rina intuisce. Non ha bisogno di parole, non ne ha mai avuto bisogno. Si congeda. Senza odio, senza rabbia, con una stretta di mano lieve. È solo più cupa, adesso. Sa che la prossima lezione di filosofia che ascolteremo insieme, seduti allo stesso banco, è distante anni luce, collocata in galassie future che devono ancora nascere. La vedo allontanarsi di qualche passo, lenta, esitante. La disperazione mi dà la forza per concentrami su un unico imperativo: “Sorprendili!”. Ho l’occasione, l’ultima, la prima, per sorprendere chi mi ha fatto il dono prezioso e ingombrante di quel consiglio.
“Sai Rina, io in Egitto non ci sono mai stato. Lo so, è assurdo, ma… se venissi con me, io, ora, ci andrei”.
Si gira piano, Rina. Tutta la sua pacatezza non riesce a nascondere la luce di un sorriso. Cerca frasi importanti, adatte alla circostanza. Alla fine riesce ad infrangere il silenzio solamente con una battuta.
“Ma tu non eri quello che ha paura di volare? Se vuoi possiamo andare in nave, come nel romanzo di Agatha Christie!”.
“No, andiamo in aereo, dai. Questa volta mi sa che non avrò paura. La cosa peggiore che potrebbe capitarmi… sarebbe… morire!”.
Non ridiamo, né io né lei. Siamo così vicini che le labbra trovano di meglio da fare. Il bacio è dolce, corposo. Come un vino che ha respirato e assorbito il segreto del buio.
L’abbraccio ci porta a stringerci nudi. Ripassando in infiniti nodi i capitoli di una lezione che nessuno può imparare da solo. Seguiamo i punti, le linee soffici di carne e respiri. Le sottolineiamo infinite volte con le dita. Frasi mute, impossibili da dimenticare.
Mi guarda di nuovo, Rina. Tenera ora, non più oppressa da quell’angolo di pietra che impedisce alle labbra di distendersi liberamente. Mi sfiora i capelli, cerca i miei occhi ancora accesi. Mi bisbiglia nuove parole.
“Sei fortunato, sai! Di tutte le morti, la morte per amore è la migliore. Quando si muore davvero, non si muore per niente”.
Non sono certo di avere capito del tutto. Forse sì e forse no. La mente e il corpo preferiscono perdersi in un altro dilemma: se il cuore che sento battere nella carne soffice e calda che stringo e che mi tiene stretto è il mio o quello di lei. Ascolto, in silenzio, per lunghi istanti. Non so decidere. Resta un enigma, un geroglifico arcano, un eterno mistero. So solo dire ora, con certezza assoluta, che è un cuore vivo.