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Un gioco da ragazze

Creato il 17 novembre 2011 da Robydick
Un gioco da ragazze2008, Matteo Rovere.
Parliamo del libro prima che del film con l'idea presente che si tratta di due opere diverse, che seguono uno stesso spunto per arrivare ad un altro svolgimento.
Un gioco da ragazze l'ho praticamente divorato in una sera. Lo stile di Andrea Cotti mi ricorda un  po' quello cinematografico del primo Tiziano Sclavi, anzi mi chiedo come mai abbiano pensato ad un'altra storia quando questa era già praticamente una sceneggiatura accuratamente preparata. Ma la risposta è semplice. Paura. Perchè non importa quanto le pagine dei giornali siano piene di quindicenni che fanno stragi come mangiassero uno snack, di vecchie uccise per due lire da figli assetati di pensioni, di un vicino che ti spara perché hai la radio alzata un po' troppo.
Certo, il libro è scritto, ma siamo sinceri quanti leggono in Italia?, e poi perché proprio il libro di Cotti quando le liberie trasudano di manuali per corteggiare, di consigli scritti da comici anche quando in Watchmen di Alan Moore era proprio il comico il personaggio più gretto? Un film invece è più immediato, arriva dritto allo scopo facendoti spendere solo 90 minuti e non ore e ore. Per questo forse il film fa più paura ed è meglio tagliare, svilire a volte per cercare di fare qualcosa di buono.
Leggere il bel libro di Andrea Cotti è vedere la versione alternativa del film di Matteo Rovere. In alcuni tic, in alcune sfumature, in altri personaggi ritroviamo quelli visti e vissuti nella pellicola, compresi personaggi aggiunti ed altri semplificati, ma il libro è oltre una dimensione che sicuramente è stata scelta per non inimicarsi fette di pubblico, per portare almeno un pezzo di una torta se portare tutta la torta era impossibile.  Con questo non tolgo niente al film, che alla luce dei fatti era forse il modo migliore (anche se non l'unico) di trasporre per immagini il libro. Certo è che nel libro i personaggi davvero vivono, hanno mille sfumature e risultano più interessanti dell'idea di un'opera ispirata ai luttuosi fatti di Erika e Omar. Bisogna dividere le due cose però: il libro è ottimo, il film è ottimo, su questo non ci piove, ma sono due universi paralleli che hanno tutto e niente da spartire. E come per assurdo leggere Revolver di Isabella Santacroce e volerlo confrontare con Baise moi di Coralie Trinh Thi e Virginie Despentes, magari qualche somiglianza la troviamo, ma sono due cose diverse, due opere che viaggiano in direzioni opposte. Un gioco da ragazze, il film e il libro, hanno lo stesso titolo, ma niente di più diverso esiste a cominciare dalla protagonista Elena Flores, da come è tratteggiata, dalle sue azioni all'interno della storia.
Prendiamo allora il film di Matteo Rovere. Un gioco da ragazze è sicuramente la storia di una lolita che plagia le persone e divora ogni cosa di buono le si avvicina, amore, amicizia, affetto, per trasformarlo in odio puro, ma è anche in primis la storia di una solitudine. In una concezione molto ellisoniana il regista descrive la protagonista, Elena, come un vuoto a rendere, un bellissimo involucro senza nulla dentro. Ad Elena non interessa l’amore, lei è regina delle lacrime, le stesse che usa per sedurre. Ad Elena non interessano gli affetti, guarda suo padre morire senza rimorso. Ad Elena non interessa l’amicizia, lei si scopa di nascosto i ragazzi delle sue amiche, le stesse ancelle che la venerano come quello che è, una Dea. E come una Dea lei è la più bella, la più spietata, la più fredda tra le creature. Guai a pestarle i piedi: usa idranti come aguzzine dei film di Bruno Mattei, i vari Kz9 lager di sterminio. Per lei il mondo è composto da sfigati, da gente patetica che non ha il coraggio, neanche quando vuole farlo, di suicidarsi. Allora ecco che il suo mondo, solo e pateticamente superficiale, fatto di Vanity fair letti in classe, di frasi rubate a Paris Hilton o Kate Moss, si scontra con la semplicità di vita di un professore che, pur avendo il doppio dei suoi anni, ha ancora dei sogni.
Niente di più facile per Elena allora di creare dal niente un mondo artificiale, di cristallo purissimo, dove lei e il professore possono amarsi di un amore folle e magnificamente impossibile lontani da tutto e tutti. E ancora più facile quel cristallo infrangerlo, frantumarlo e con i pezzetti rimasti costruirsi un paio di scarpe per ballare in feste magnifiche e tutte uguali. Eppure qualcosa succede: un battito d’ali di farfalla. Mentre il piano sta per riuscire lei dice di no, al professore, ma il gioco è già andato troppo avanti e forse questa volta, la prima e l’ultima volta che ama, le sue lacrime sono vere.
Il film di Matteo Rovere è girato molto bene, sublimato da una fotografia magnifica che valorizza ancor di più le scelte stilistiche dell’autore. Se pensiamo che è il primo lungometraggio del regista c'è da rimanere piacevolmente sorpresi soprattutto alla luce di prodotti italiani costruiti con l'occhio apatico del tv-movie. Il tocco invece di Matteo Rovere è di quelli che colpiscono e non hanno garbatezze stucchevoli, la sua poesia è violenta e poetica: non ha paura di sporcarsi col sangue o con una storia che si chiude crudelmente nello stesso vuoto pneumatico dei protagonisti. Molti hanno chiamato Un gioco da ragazze l’anti Albakiara, ma a parte che i due film non c’entrano una cippa l’uno con l’altro, sono due operazioni diversissime. Quello di Rovere un film anche di contenuti, quello di Salvati un pastrocchio soltanto notevole nelle sterzate poliziesche di un magnifico Raz Degan.
Unica pecca la recitazione che ahimé ricorda a tratti le oche starnazzanti soprattutto con l’attrice che interpreta l’amica bionda di Elena. Per il resto un film che rappresenta in maniera cruda l’umana crudeltà con un certo coraggio, anche di non essere didascalico o banale. Naturalmente con i limiti presenti solo nel passaggio libro-film.
In giro leggo che all’unanimità Un gioco da ragazze ha fatto un po’ schifo a tutti. Solo contro il mondo, ma felice di esserlo. Almeno stavolta.
Un gioco da ragazzeKeoma
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