Chiedo alla mia amica che conosce bene Katutura, il quartiere povero di Windhoek, di accompagnarmi a Orlindi, una piccola casa d’accoglienza per bimbi orfani o con famiglie problematiche. Dopo aver svoltato in auto per una serie interminabile di stradine affollate, ci fermiamo davanti ad un cancello bianco un po’ scrostato. Non c’è nessuna indicazione o targa, ma sanno del nostro arrivo e ci aprono subito.
Sono le ore più calde della giornata e mi ritrovo in un cortile polveroso – in realtà è l’intera città ad essere assediata dalla polvere di una terra arida-. Non facciamo in tempo a scendere dall’auto, che una quarantina di bambini corrono a salutarci incuriositi. Hanno tutte le età, c’è chi gattona e chi è più alto di me, eppure tutti hanno un viso sorridente, come se i mostri del passato fossero rimasti là fuori quel cancello bianco un po’ scrostato.
Dopo un po’ di presentazioni con i bimbi più audaci ed estroversi, raggiungo a fatica l’ombra della grande tettoia e trovo Gino, un ragazzone italiano ex giocatore di rugby, totalmente rapito dalla piccola Betty. La tiene in alto con una sola mano e lei gli sorride altrettanto innamorata e divertita. Betty ha circa due anni, una faccia paffuta contornata da bei riccioli neri e vive a Orlindi da non molto.
La mia amica Michela ad Orlindi
Io ad Orlindi
Gino è qui con sua moglie Sandra e hanno deciso di dedicare tutte le loro ferie al volontariato in questo “Place of Safety” – come viene chiamata tecnicamente questa casa – nel cuore di Katutura.
“Quindi non avete girato la Namibia? Siete stati soltanto qui?” – chiedo io stupita -. Ma la risposta è superflua, basta leggere la scena che ho davanti ai miei occhi: un uomo che ha trovato l’amore più profondo in una piccola bimba abbandonata nel cuore della capitale della Namibia. Capisco che per lui ha molto più senso passare ogni minuto del suo tempo con la piccola Betty che visitare un paese, ancorché meraviglioso.
Gino e Sandra sono italiani, ma vivono, dopo una lunga serie di esperienze internazionali, a Francoforte. Betty può vivere solo qui. Ma loro torneranno.
“Spesso le mamme abbandonano i figli perché non possono permettersi di allevarli o ci sono storie terribili alle spalle. Talvolta tornano a chiederli, ogni tanto qualcuna fa delle visite, ma il più delle volte vengono lasciati al loro destino” – mi spiega Andrea Di Gesualdo, presidente dell’Associazione Mamadù Italia, che provvede a questa e molte altre case di accoglienza in tutta la Namibia.
Poi mi presentano l’ultimissima arrivata, Francine. Il governo l’ha depositata nel cuore della notte nella casa di Orlindi in preda a convulsioni da pianto. È minuscola, avrà poche settimane. Il pensiero che una creatura così indifesa venga abbandonata mi tocca profondamente. “Così piccola potrà essere adottata da una famiglia che potrà amarla?” – chiedo speranzosa -. Ma la risposta che ottengo mi rattrista. “Purtroppo qui le adozioni sono rarissime, anche per i neonati, e le adozioni internazionali sono chiuse – mi risponde Andrea, che prova a farmi capire la dura realtà di Katutura -. I bambini possono rimanere nella casa fino al termine dell’intero ciclo di studi, quindi anche oltre il diciottesimo anno d’età.”
L’adozione per questi splendidi bimbi è un sogno impossibile. Però almeno case come queste alleviano il disagio di crescere in fatiscenti strutture governative. In questa casa, così come nelle altre, i piccoli sono seguiti il più possibile, anche dal punto di vista sanitario e educativo.
Andrea ha dato vita all’associazione Mamadù Italia nel 2010, dopo esser venuto in Namibia per un viaggio con un amico. “È nato tutto da una promessa fatta ai bambini di Orlindi. ‘Non vi dimenticherò’, dissi loro”. E così sta facendo dividendosi tra Milano, ove vive e lavora, e Windhoek. Oggi si dedica alla causa anche la sua compagna Daniela Dallera, silenziosa e infaticabile responsabile del volontariato. Assieme nel 2013 hanno preso un’aspettativa dal lavoro di tre mesi per seguire Jerome, un bambino con una gravissima malformazione, che aveva bisogno di delicati e urgenti interventi chirurgici. “È stata dura e ci sono volute ben 4 operazioni – tutte molto costose e finanziate interamente dall’associazione -, ma oggi Jerome sta bene e conduce finalmente una vita normale”. E mentre Andrea parla scorgo la fierezza e l’affetto di un padre.